I teatri a Napoli e in Campania
di
Vincenzo Grisostomi Travaglini
PREMESSA
I teatri a Napoli e in Campania
di
Vincenzo Grisostomi Travaglini
PREMESSA
PREMESSA
Trattare delle strutture teatrali in Campania vuol dire soprattutto abbracciare secoli di cultura. Un territorio d’indagine assai vasto, perché è impossibile separare Napoli da quello che era il suo Regno, la cui capitale fu punto di riferimento imperativo di gran parte del Meridione. In questa esplorazione si possono fissare delle date, dal VI secolo a.C. con la Magna Grecia e il 1737, fondazione del Regio Teatro di San Carlo per poi proseguire sino ai nostri giorni. Dal XVI secolo Napoli è luogo per lo sviluppo delle arti, in particolare di quella teatrale. Alla prima metà del Seicento risalgono importanti teatri, il cui proliferare s’identificherà in una specifica scuola musicale sviluppatasi nell’arco di cinque secoli, fino al primo Novecento. Già nella seconda metà del Cinquecento la città partenopea aveva visto l’apertura di quelli che sarebbero divenuti i più celebri conservatori, nati quali organismi assistenziali e in seguito convertiti in istituti di formazione musicale. Gli antichi orfanotrofi, il Sant’Onofrio a Porta Capuana, il Santa Maria di Loreto, i Poveri di Gesù Cristo, la Pietà dei Turchini, furono importante strumento di sviluppo dell’articolata tradizione operistica. Il cammino è ricco di avvenimenti per quella che nel XVIII secolo fu a giusto merito considerata con Parigi capitale europea della cultura e del melodramma e da dove l’opera buffa e i suoi compositori conquisteranno le principali capitali, da dove s’imporrà il genere aulico con l’affermazione della drammaturgia metastasiana. Fu culla nell’Ottocento di capolavori e punto di riferimento di musicisti quali Rossini, Bellini e Donizetti, coinvolti in quel fervore creativo che li rese celebri, mostrandosi a un pubblico che da Napoli sarà internazionale. Quindi un periodo di decadenza e residui bagliori di celebrità, alla ricerca di una centralità perduta, prima della rinascita. Di grande interesse i recenti lavori di riqualificazione dei luoghi teatrali di Napoli, ragguardevole la dinamica di quelli campani come Salerno e principalmente la riconquista nel cuore del pubblico di un San Carlo nuovamente splendente.
GLI ANTICHI TEATRI
Neapolis era il nome della “città nuova” voluta dai greci e florida per i suoi commerci, rinomata sin dalla fondazione per le strutture consacrate alla tragedia e alla commedia. Luoghi di riferimento, primari nel concetto di polis, perché l’arte conservò per secoli funzione sacra e politica, quanto di svago e distrazione. A Napoli erano presenti teatri coperti e scoperti e alcune delle rovine sono oggi riconoscibili grazie a scavi recenti e altri ne seguiranno, d’epoca romana, messi in evidenza nella stratificazione di costruzioni affastellate che andarono a snaturare l’originale tracciato greco-romano. Cantine, cortili e giardini nell’area oggi identificata quale Decumano Superiore e sono l’Odéione il Teatro scoperto, risalenti alla fine del I secolo a.C. Grazie a studi contemporanei si può affermare che le strutture furono edificate su precedenti costruzioni, destinate ad assemblee e spettacoli già in epoca greca, all’incirca dal IV secolo a.C. Nell’Odéion, detto anche di Nerone o dell’Anticaglia dalla via omonima, s’ipotizza da testi coevi che vi si svolgessero esposizioni di testi poetici, con musica e canti. Qui si esibivano i “pitauli”, così chiamati nella devozione per Apollo Pizio, sfoggiando le rinomate doti vocali, gli “encomiografi” che vi verificavano le proprie composizioni dal favore del pubblico, prima di esibirsi a Roma. Luoghi teatrali di primaria importanza, considerati quali custodi della cultura ellenica: graecamurbem. Riporta Tacito che Nerone qui debuttò con una sua ode e leggendari restano i suoi certami canori. Svetonio riporta che nell'anno 62 d.C. durante un’esibizione dell’imperatore la città fu percossa da un terremoto che Nerone volle interpretare, nella certezza della stupefacente qualità del suo canto, quale segno di apprezzamento degli dei, obbligando tutti a restare ai loro posti. La più antica struttura teatrale dell’attuale Campania, però, si trova altrove ed è ancora visibile nell’antica Hyele (Elea) fondata dai greci nel VI secolo a.C. tra Punta Licosa e Palinuro, oggi parco archeologico. Qui si può ammirare il Teatro di Velia, al cui interno si può assistere a spettacoli ispirati all’antica arte di palcoscenico. Il discorso potrebbe ampliarsi a dismisura, perché molte sono le strutture presenti nella regione, tra le quali un discorso a parte merita uno dei siti archeologici più famosi al mondo, quello di Pompei, dove sono conservati d’epoca romana il Teatro Grande, il Teatro Piccolo e l’Anfiteatro, restituiti dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Indicativo è il titolo di una rassegna che vi si svolge annualmente: “Pompeii theatrum mundi“. Scriverà Seneca nel Graecamurbem, riferendosi alla vita sociale a Napoli: «teatri troppo pieni e scuole troppo vuote», un giudizio severo al quale si potrebbe rispondere con le parole di Sant’Agostino: «Per omnescivitatescadunttheatra».
IL NUOVO MILLENNIO e LE STANZE
Sottintendendo secoli di storia, dove le sedi si riconoscono in templi e fiere, con drammi liturgici e farse di giocolieri e buffoni, luogo d’incontro per poeti e musici s’identifica il palazzo e alla corte napoletana di Carlo d’Angiò è documentata la rappresentazione, all’incirca nell’autunno del 1283, di uno dei più antichi drammi francesiJeu de Robin et de Marion di Adamo de la Halle. Tra rappresentazioni sacre e profane, piazze e castelli, si compie nei secoli successivi la celebrazione della così detta “farsa di corte”, così come diffusa è la messa in scena di carattere popolare, con manifestazioni improvvisate e dialettali, caratteristica che si perpetuerà, sia pure nel mutato contesto, quale impronta caratterizzante della realtà cittadina. Con un ampio salto temporale,a Napolidobbiamo attendere l'avvento della dinastia aragonese che, dalla fine del XV secolo, promosse feste e trionfi, facendo realizzare ricercati spettacoli su testi di Jacopo Sannazaro e farse allegorico-morali popolareggianti di Pier Antonio Caracciolo del quale si ricorda la Farsa de lo Cito, mentre nei palazzi nobiliari attori per lo più improvvisati recitavano commedie di Della Porta e altri autori. Il discorso, però, rischierebbe di perdersi nei millenni e punto di partenza per l’esplorazione dei teatri in Campania saranno le attività recitative, poesia e musica, dal XV secolo ai giorni nostri in quella che fu capitale, vicereame, ancora capitale del Regno di Napoli (RegnumNeapolitanum), dal 1816 con Palermo Regno delle Due Sicilie, poi città di Napoli. Al Quattrocento risale un evento di fondamentale importanza per lo sviluppo della musica, soprattutto per tutti quei progressi che porteranno all’identificazione della Scuola napoletana, la costituzione nella città di Partenope di quella che con tutta probabilità fu la prima scuola musicale d’Europa, voluta da Ferdinando I di Aragona che chiamò a sé i maggiori musicisti dell’epoca, “reclutando” dalla Francia i migliori cantori, offrendo cospicui compensi a tutti coloro che avessero prestato servizio presso la sua Cappella Reale. Nella seconda metà del Cinquecento la commedia dell’arte a Napoli si fonde con la musica, il palcoscenico è per lo più una struttura mobile, sia essa identificata nei palazzi aristocratici o improvvisata, all’aperto e in locali di fortuna. Successivamente, con l’arrivo e la permanenza dei “Febi Armonici”, si consoliderà la commedia musicale in tutte le sue forme che sarà esportata e imitata in tutta Europa. È in questo fervore culturale che, negli immediati anni a venire, Napoli s’imporrà come capitale della musica. A corte si matura sempre più la consapevolezza, al pari delle più emancipate sedi di governo degli stati italiani, di elevare attraverso lo spettacolo l’immagine del regno, così che si allestiscono palcoscenici sempre più sontuosi: a Napoli nel 1536 in casa del principe di Salerno Ferrante Sanseverino in onore di Carlo V, palazzo dove «stava sempre (…) apparecchiato il proscenio»; nella residenza a Chiaia della marchesa del Vasto Maria d’Aragonanel 1558 un «ricco e bel teatro» per rappresentazioni poetico-musicali. Napoli già dal XVI secolo vanta una specifica tradizione teatrale, grazie anche all’intraprendenza delle primissime generazioni di comici, con il fiorire delle cosìdette “Stanze”, luoghi di diverso carattere destinati alle pubbliche esibizioni, che nel secolo successivo e lungo tutto il diciassettesimo si affiancarono alle più rinomate sedi della facoltosa e autorevole committenza privata. Da Venezia, la città partenopea aveva precocemente accolto e divulgato il nuovo modello melodrammatico, appropriandosene e affermandolo con caratteri propri, ponendosi all’avanguardia tra le “piazze” italiane e presto segnando una sua peculiarità compositiva, interpretando e proponendo un genere che potesse essere recepito da un pubblico contemporaneo: officina di talenti destinati al successo. Non solo l’aristocrazia, ma anche il ceto borghese è interessato alla gestione dello spettacolo privato, divenutostrumento di ostentazione e affermazione sociale. Commedie sono ricordate nel 1632 in casa del reggente Rovito e nel 1631 presso un “luogotenente della Camera” dove si recitò L’amor paterno di Nicolò degl’Angioli. Alla comparsa dei primi teatri pubblici per diverse presentazioni musicali e drammatiche, fa riscontro un insieme di “Luoghi” e nella Napoli che si affaccia al Barocco con pregevole ristrutturazione edilizia, egualmenteil concetto di teatralità tende ad esprimersi in modo del tutto originale. All’interno del tessuto urbano i differenti luoghi di spettacolo tendono a distinguersi, in particolare quelli pubblici che si concentrano in alcune aree, a ridosso del largo di Castello la Stanza di San Giorgio ai Genovesi distrutta nel 1620, il Teatro di San Bartolomeo nel “vico” omonimo e la Stanza di San Giovanni dei Fiorentini. Attorno a Castel Capuano sorsero due Stanze adibite allo spettacolo, quella della Duchessa e il Giardino di Porta Capuana; nel quartiere portuale un’altra, detta la “Stanza della Porta della Calce”. Fatta eccezione per il Teatro San Bartolomeo e il successivo Teatro dei Fiorentini, le stanze pubbliche napoletane erano strutture modeste e insufficienti, spesso degradate dal territorio circostante, costituendo un circuito ai margini del teatro ufficiale. Nessuno dei primi teatri ascrivibili al periodo si può correttamente definire come tale, venendo di tempo in tempo sostituito da strutture sempre in divenire, con ristrutturazioni asseconda della fortuna o disgrazia degli impresari e compagnie, del valore attribuito loro dal governo della città. Con maggior rilievo dal XVIII secolo, in opposizione alle sale pubbliche, si assistette a un rinnovato fenomeno di privatizzazione dello spettacolo che è assorbito all’interno delle residenze nobiliari quale segno di distinzione. Qui la “Galleria” ed il salone delle feste ne diventano la sede elettiva, contribuendo alla diffusione dei “teatri di sala”. È quello che viene definito il “teatro su committenza”. Sui palcoscenici del patriziato le scenografie diventano sempre più complesse e stupefacenti, si utilizzano costumi sontuosi e stravaganti e le macchine teatrali producono effetti spettacolari. Un teatro del tutto speciale di “feste e di commedie” fu quello del Palazzo di Donn’Anna a Margellina, allestito per volere di Anna Carafa della Stadera principessa di Stigliano andata in sposa nell'ottobre 1636 al viceré spagnolo Ramiro Felipe Núñez de Guzmán. Affacciato sul golfo di Napoli, fu realizzato dall’architettoCosimo Fanzago a strapiombo sul maresu quello che era il giardino acquatico dove s’infrangeva il Tirreno,adibito a rappresentazioni teatrali.Da un articolato sistema di grotte scavate nella roccia di tufo, le imbarcazioni della nobiltà raggiungevano il teatro direttamente dal mare, per prendere parte agli sfarzosi spettacoli detti “spassi di Posillipo”. Si narra che il palcoscenico venisse circondato da barche di musici che dalle acque echeggiavano il canto melodioso della sirena Partenope, confuso nei lamenti dei “fantasmi innamorati”.Nella credenza popolare erano i gemiti degli infelici amanti uccisi dalla regina Giovanna d’Angiò, per altri da Giovanna II di Napoli, dopo incontri passionalinell’originario fabbricato detto “La Sirena,altrimenti dalla stessa Donna Annanel suo incompiuto palazzo con “Teatro marittimo”. Nel regno di Napoli diventato vicereame di Spagna, lo spazio elettivo per le rappresentazioni ufficiali della corte s’impone e nel teatro allestito nei palazzi dei viceré, il Palazzo Vecchio, il Nuovo, poi a Palazzo Reale, si allestiscono veri e propri palcoscenici, nel tempo da considerarsi stabili;la grande sala si trasforma in teatro per assolvere a una funzione celebrativa.
IL TEATRO DELLA COMEDIA VECCHIA
Il primo teatro pubblico a Napoli è quello che sarà in seguito denominato Della Commedia Vecchia, la cui attività è accertata circa dal 1550. Edificato in legno dove oggi si trova la chiesa di San Giorgio dei Genovesi, per molti anni chiamata "San Giorgio alla Commedia Vecchia", era sede delle compagnie di recitazione spagnole che esibendosi per lo più in provincia vi trovavano stabile punto di riferimento. Il teatro ebbe un tale successo che il governo impose una tassa sui proventi per finanziare la Casa degli Incurabili, luogo questo che ricorrerà riguardo allo sviluppo del successivo San Bartolomeo e di conseguenza del San Carlo. La Commedia Vecchia fu acquistata nel 1587 da un consorzio di mercanti e marinai di Genova, che la vollero demolire all'inizio del XVII secolo.
IL TEATRO DEI FIORENTINI
In sostituzione a quello denominato della Commedia Vecchia sorse nelle vicinanze un altro teatro, che si disseTeatro dei Fiorentini o “di San Giovanni dei Fiorentini” nel vecchio rione Carità, già de Greci per la prossimità della chiesa di quella nazione, considerato il primo teatro edificato a Napoli nella concezione di struttura all’italiana. Si legge nella guida “Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze” del 1845: «poiché in su la prima metà del XVI secolo si fu introdotta presso di noi (Napoli) la commedia spagnuola, le si aperse un piccolo teatro presso la chiesa di S. Giovanni Evangelista della nazione fiorentina, dalla quale tolse il nome». Il teatro ebbe una lunga storia come palcoscenico di prosa e per anni divenne sede della commedia spagnola, tanto la strada antistante fu soprannominata “via della Commedia Spagnuola”, mentre al coevo San Bartolomeo trionfavano i comici italiani o “lombardi”. Il Fiorentini ospitava circa duecentocinquanta persone ed era operante sin dai primi del Seicento, perché l’uditore dell’esercito ne chiedeva nel 1618 il pagamento dell’affitto. Fu edificato da un certo Vincenzo Capece, figlio bastardo di un frate arricchito con i proventi dell’industria del gioco e dell’usura, una pratica che vivacizzerà la vita dei luoghi di spettacolo napoletani anche nei secoli successivi. Costui ebbe un figlio naturale di nome Carlo, esperto “di musica e di poesia”, celebre non solo per le doti artistiche, bensì perché duellante e scherano e le cronache ci tramandano che “morì ammazzato”. Sin dai suoi esordi l’opera buffa ebbe tale successo che la sala dei Fiorentini, così come il succedaneo San Bartolomeo, non fu più sufficiente a contenere la crescente richiesta e nell’arco di pochi anni, dal 1618 al 1620, vedranno la luce a Napoli altri teatri dedicati alla commedia e successivamente all’opera, tra cui il Teatro della Pace o della Lava, al vicino ospedale della Pace e il Teatro Nuovo di Montecalvario o Sopra Toledo, le più, furono chiuse per problemi di ordine pubblico e atti contro la morale, quale nel 1626 la sala situata in via della Duchessa. Risale ai teatri pubblici la figura dell’impresario, che con diverse abilità segnerà lo svolgersi delle stagioni teatrali, almeno sino alla prima metà del Novecento. Della nomina di un impresario per la prima volta se ne ha notizia a Venezia nel 1637, poi Bologna e Roma e a Napoli dal 1671. Alla fine di quel secolo l’attività dei Fiorentini languiva e ormai erano messe in scena solamente testi in lingua castigliana di scarso interesse, tanto che fu deciso di cambiare genere passando, così come suggeriva il gusto dell’epoca, dalla prosa alla musica, con la messa in scena nel 1706 di un “drammetto”L’Ergasto di Carlo de Petris con musica di Tommaso Di Mauro. Quell’anno un’associazione di aristocratici lo rilevò per ristrutturarlo, trasformandolo in teatro per l’opera. In questa nuova veste furono incaricati della gestione i migliori impresari del tempo e sul rinnovato palcoscenico si eseguirono intermezzi e opere buffe dei maggiori compositori partenopei. Primo direttore della nuova gestione del Teatro dei Fiorentini fu Nicola Serino e grazie alla sua esperienza e abilità furono commissionati lavori i cui titoli primeggiarono nel panorama musicale della Scuola napoletana, con tale successo che in breve tempo divenne uno dei più apprezzati luoghi di spettacolo. Nel 1709 vi si rappresentò la prima commedia dialettale in musica Patrò Calienno de la Costa di Antonio Orefice, compositore che aveva debuttato l’anno precedente quale operista al Teatro San Bartolomeo. Negli intervalli delle opere in musica recitavano le compagnie di prosa. Un incendio lo distrusse il 17 gennaio 1711 dopo la messa in scena de La Cianna “Commeddeia pe museca de Col’AntuonoFeralintisco” e subito fu deciso di ricostruirlo con imponenti lavori che durarono due anni, riaperto dal 1713. L’anno successivo il Fiorentini fu rilevato da Pietro Trinchera, ma nonostante l’impegno e i molti investimenti d’imporlo nuovamente all’attenzione del pubblico, non poté gareggiare a lungo per la musica con il San Bartolomeo. Si provò nuovamente tra il 1713 e il ‘14 con l’opera seria, ma il tentativo dovette riuscire male, perché nella stagione successiva si tornò alla commedia per musica, così come per tutto il secolo seguente perché, si disse, la vocazione per i Fiorentini era quella dell’opera buffa di origine napoletana e toscana. Furono i tempi per la sala del maggior successo, solo per fare alcuni esempi del 1718 è Il trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti, nel 1719 Lo Cecato fauzo in napoletano di Leonardo Vinci. Il melodramma in genere risentiva nel frattempo dei nuovi indirizzi di gusto e cultura, liberandosi gradatamente dalla superficialità di alcuni librettisti napoletani del Seicento e già dal 1704 giungevano da Venezia scritti maggiormente elaborati. Eppure, a Napoli l’elemento prettamente popolare continuava ad avere ampi consensi, a tal punto che un certo Carlo De Petris, poeta del Teatro dei Fiorentini e del San Bartolomeo, introduceva nei testi veneziani delle parti buffe definite: «al gusto di Napoli». Tantomeno in questi palcoscenici, soprattutto nell’opera seria, non si riusciva ad arginare la stravaganza dei cantanti. È tutto un mondo d’inimmaginabile vivacità quello che si offre attraverso la storia dei palcoscenici napoletani e l’occasione per riviverlo attraverso un testo teatrale sarebbe di leggere il libretto o assistere a una rappresentazione, oggi purtroppo improbabile, dell’opera buffa La canterina che fu rappresentata proprio ai Fiorentini nel Carnevale del 1728, dove nella trama si profila con ironia e veridicità quantonella realtàdi quei palcoscenici. Un’umanità fittizia che per paradosso si rifletteva con conseguenze destabilizzanti nella società napoletana.Quello del malaffare nei teatri napoletani sarà un problema che sarà affrontato con severità, ma mai veramente risolto. Basti un episodio, pur marginale, per restituire in parte quelle atmosfere: nel 1729 la rivalità tra due cantatrici che si esibivano stabilmente al Fiorentini finì nel sangue. Protagoniste la giovanissima Rosa Albertina detta la “Trentossa” figlia naturale del principe Cimitile Albertini e Francesca o Ceccia Grieco che con lei recitava sempre sullo stesso palcoscenico ricevendo, però, meno applausi, ma soprattutto minor consenso nel corteggiamento. La Grieco risolse assoldando un giovanotto per ammazzare con un colpo d’archibugio la rivale. Siamo all’inizio del Settecento e l’opera buffa, nonostante il disdegno di re Carlo di Borbone, continuò a propagarsi con compositori quali Domenico Sarro, Gaetano Latilla, Giuseppe Selitti, Domenico Fischietti, Leonardo Leo, Giovanni Battista Pergolesi, Nicola Bonifacio Logroscino, Nicola Porpora, Niccolò Iommelli, Pietro Auletta. Il filosofo e politico francese Charles De Brosses scrisse che nell’autunno del 1739 trovò a Napoli: «quatre opera à la fois surquatrethéâtresdifférents», il San Carlo, il Fiorentini, Nuovo e Pace. Protagonista resta la musica e il germogliare di tanti lavori nei diversi generi nati al sorgere della nuova era, così rapidamente diffusi da potersi porre agli albori del movimento che si svilupperà nel melodramma degli anni a venire e nel secolo successivo, dalla commedia di costume, ossia di osservazione sociale, alla nuova tragedia con Metastasio, Carlo Goldoni, Vittorio Alfieri. Per restare al Fiorentini e ai titoli più indicativi dell’immenso repertorio, nel 1740 andò in scena Alidoro di Leonardo Leo con “paroliere” Gennaro Antonio Federico e nel 1768L'osteria di Marechiaro di Giovanni Paisiello con libretto di Francesco Celone a dimostrazione di come i libretti prendessero sempre maggiore spunto dal colore locale napoletano. Altro esempio sintomatico dell’assimilazione dello specifico genere musicale sarà nel Carnevale del 1773, ma siamo al Teatro Nuovo, con La finta parigina di Domenico Cimarosa, la cui musica donerà alla scena l’espressione di dolce tenuità che fu definita“alle tinte delle gouaches napoletane”. Dal 1773 al 1779 proseguirono i lavori di restauro e ampliamento dei Fiorentini, adattandone la struttura al dilagante gusto neoclassico su progetto dell'architetto Francesco Scarola, allievo di Ferdinando Fuga, con una platea «capace di trecento persone» e ancora nella descrizione d’epoca «Il teatro, di bella e giusta capacità, è costrutto di forma più strettamente ellittica di quella di S. Carlo; e l’ellissi è troncata dal palcoscenico in un bel misurato punto dell’inclinazione. Nella sala son cinque gli ordini de’ palchetti, spaziosi anzi che no; ogni ordine ne conta diciassette, esclusi quelli che si aprono nella faccia più larga de’ pilastri del proscenio. Ad essi palchetti si ascende per doppia scala, e i corridoi han mediocre ampiezza. La platea ha quindici file di scanni, i cui scompartimenti sono lunghi e comodi; e la gran porta di essa mette quasi immediatamente alla strada». Nel teatro lavorarono compositori rappresentativi di un’epoca tra le più feconde per la musica, tra questi lo stesso Domenico Cimarosa, Niccolò Piccinni e quindi Gioachino Rossini. L’attività del teatro proseguì anche dopo l’edificazione del Reale, anche se annoverato tra quei “teatri piccoli” destinati alla sola opera buffa, oltre il Fiorentini, il Nuovo e la Pace che, nonostante nei primi due sin dai tempi dei viceré era stato edificato il palco reale, re Carlo di Borbone non volle frequentare se non occasionalmente. Nella Napoli dei Borbone e dopo il 1737, il Fiorentini fu sempre più relegato a una funzione popolare, con eccezione tra il 1816 e il ’17 quando il Regio fu distrutto da un incendio e ricostruito in pochi mesi, anche se molti nobili continuarono a frequentare il Fiorentini con assiduità e lo stesso successore di re Carlo, il figlio Ferdinando IV, vi si recherà spesso in incognito. Infine, dopo il 1817 il palcoscenico ritornò all’iniziale vocazione di teatro di prosa,d’altronde mai abbandonata, come documentato nel 1796 dal “Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli” dall’abate Francesco Sacco « (…) ai Fiorentini (…) si rappresentano non solamente opere in musica, ma ancora Opere in prosa». A questo reiterato interesse si aggiunse la necessità di accogliere la Compagnia Reale dei Fiorentini, le cui attività proseguiranno per tutto l’Ottocento con nomi illustri e così nel secolo successivo. Nel 1941 un bombardamento danneggia gravemente l’edificio e negli anni cinquanta, nel progetto di riordino del rinnovato assetto del rione San Giuseppe/Sanità, è demolito. Successivamente viene riedificata una struttura che in nulla richiama al glorioso teatro, dove oggi trova sede una fondazione che porta il nome di Fiorentini, inizialmente cinema e successivamente sala da bingo.
IL TEATRO DI SAN BARTOLOMEO
Di due anni successivo ai Fiorentini, almeno stando alle fonti più accreditate, è il Teatro San Bartolomeo. L’Ospedale degli Incurabili, da fruitore dei proventi dello spettacolo poiché attività umanitaria, si era trovato ad esserne sovvenzionatore, prevalendo la morale spagnola che le opere pie non dovessero essere mantenute dai teatri, bensì sostenerne lo sviluppo e fu così che anche a Napoli: «il diavolo la vincesse, anche per questa via, contro il cielo». Così ché, circa nel 1620, venne edificato dalla Congregazione dell’Ospedale il Teatro San Bartolomeo attiguo alla strada omonima, sperando con l’iniziativa, oltre l’imposizione, di accrescere i propri introiti grazie ai proventi derivanti dagli spettacoli, per di più dal 1644 Filippo IV di Spagna concesse alla Congregazione privilegi speciali sulle commedie, ma egualmente l’investimento, a causa delle forti speculazioni, si rivelò economicamente controproducente. Il teatro fu ricavato dalla demolizione di alcune case, il più ampio possibile affinché potesse contenere il maggior numero di spettatori. Il San Bartolomeo si può definire a tutti gli effetti il legittimo predecessore del San Carlo. Per meglio capire la dinamica che obbligò gli Incurabili, sia pure malvolentieri, all’impresa del teatro, bisognerà ricordare che nel Seicento i viceré spagnoli, così come le illustre famiglie regnanti degli stati italiani, vollero sfruttare il teatro musicale come efficace instrumentum regni finanziando e più sovente facendo sovvenzionare da istituzioni che si ritenevano facoltose, l’edificazione di teatri per la produzione di spettacoli operistici. Fu gravemente danneggiato durante i tumulti contro le autorità spagnole del vicereame degli anni 1647/’48, conosciuta quale Rivolta di Masaniello o dei "Lazzari" e nell’aprile del ’48, dopo essere stato sgomberato dalle “chiassose” soldatesche spagnole intervenute per sedare la rivolta e il teatro riconsegnato all’Ospedale, il San Bartolomeo fu prontamente ricostruito in forma del tutto nuova e lussuosa divenendo, dal 1651 per volere del viceré conte d’Oñate, il primo vero e proprio Teatro dell’Opera di Napoli, essendovi introdotte«le commedie in musica all’uso di Venezia» ed essendo stato eletto a teatro di rappresentanza e per queste ragioni fu:«con molta spesa rifatto». Al San Bartolomeo i drammi musicali dati nella sala del Palazzo Reale vi erano replicati; i titoli proposti in quegli anni provenivano da Venezia, così come nel 1651 l’opera regia Il Nerone ovvero la Incoronazione di Poppea con poesia del Brusanello e musica di Monteverdi già data nella Serenissima nel 1642, rimaneggiata per l’occasione al gusto napoletano dal tenore Francesco Cirillo della compagnia dei Febi Armonici. Il Viceré IñigoVélaz de Guevara conte d'Oñate e Villamediana era talmente appassionato di musica al punto di aver promosso la diffusione al Sud del melodramma nato a Firenze e rapidamente diffusosi a Venezia ed era stato proprio il conte d'Oñate, nominato viceré di Napoli, che vi aveva chiamato i Febi Armonici, i quali si esibirono per la prima volta nella Sala del Palazzo Reale adibita per il gioco della palla e che il viceré aveva «fornito di palchetti per le opere». Sempre il viceré che, nel 1649 con Il trionfo di Partenope liberata «recitato in musica nel Real Palazzo di Napoli», aveva celebrato a corte la restaurazione politica da lui operata dopo la rivolta di Masaniello e nel 1652 con Veremonda, l'amazzone di Aragona, poesia attribuita al Bisaccioni rielaborata da un certo Zorzisto e musica di Francesco Cavalli, aveva esaltato la vittoria del suo re sui rivoltosi di Catalogna «con grandiose apparenze, come di città, palazzi,meschite, giardini, battaglie (…) con voli diversi, balli alla spagnola (…) e draghi (…)», lanciando in entrambe le occasioni inequivocabili messaggi politici. Quella stessaVeremonda, che subito dopo la prima assoluta al “Nuovo Teatro del Palazzo Reale” e ancor prima che a Venezia, fu rappresentato al San Bartolomeo, sala dove in quei primi anni si diedero prime assolute tra le quali, circa nel 1653, il dramma musicale Il Ciro di Francesco Provenzale, valutato il primo grande operista della Scuola napoletana e l’anno successivo L’Orontea regina d’Egittodi Francesco Cirillo dei Febi Armonici, compositore nativo dell’area napoletana formatosi nella Roma Barocca dei Barberini, considerato per l’epoca un “avanguardista”.Negli anni successivi si susseguono leiniziative vicereali per lo sviluppo di nuovi spazi teatrali: «il s.r. Vice Re ha ordinato si faccia in palazzo dalla parte del Parco un gran Teatro per rappresentare tragedie più comodo assai degli Ascoltanti di quello di Pallonetto». Comparve allora «la genia dei castrati e delle virtuose», così come illustratoin uno scritto di Salvator Rosa: «Dove s'udiron mai siffatte cose? / Dove il canto virtude, e le puttane / nome millantar di virtuose? (…) Scandalo dello Corti e dei Palazzi!».Per ragioni di ordine pubblico e di morale si costituì la giurisdizione della Guardia del Capitano vicereale e poi dell’Uditore del Regio Esercito, resasi necessaria perché con l’opera in musica erano giunte a Napoli «molte donne foreste cantatrici» che non lasciavano di turbare la pace delle famiglie e che al Teatro San Bartolomeo «cantano incantando». La struttura del San Bartolomeo si presentava assai imponente per l’epoca, 310 posti a sedere nella platea che conteneva anche il banco di vendita per frutta e dolciumi, trentaquattro palchetti forniti di gelosie, sgabelli e tavolini per il gioco delle carte e ”palchi corridoi”, spazi più ampi degli altri per permettere al pubblico di accavallarsi su panche o in piedi. Alterne vicende si leggono nella storia della struttura prima della devastazione causata da un incendio nella notte tra il 6 e il 7 febbraio del 1681. Dalla “Gazzetta di Napoli” del giorno 11 febbraio 1681: «La notte, dopo essersi rappresentata nel Teatro di S. Bartolomeo l'opra in musica, vi s'accese poche ore dopo il fuoco, che restò in breve tempo tutto incenerito, e perché venne sopraggiungendo il giorno, si ebbe fortuna di salvare con le diligenze le case vicine».Fu ricostruito in venti mesi, durante i quali le rappresentazioni si dettero, quelle solenni, nel Palazzo Reale e le pubbliche al Teatro dei Fiorentini e al termine dei lavori le «opre in musica poterono tornare ad esservi eseguite». Nel 1683 il San Bartolomeo era già riaperto, ma con sole due file di palchetti e la nobiltà costretta a sedersi anche in platea. Una quindicina di anni dopo, il penultimo viceré spagnolo Luis Francisco de la Cerda y Aragón (Luigi della Zerda) duca di Medinaceli ottenne che il San Bartolomeo fosse nuovamente ampliato e abbellito, concedendo il sussidio di tremila ducati annui affinché vi si accogliessero compagnie di cantanti tra le più valenti d’Italia: «in conformità d’altri teatri di altre città». Il San Bartolomeo fu ristrutturato con cinque file di palchi: «bello e ricco e capace d’ogni gran macchina teatrale», riaperto il 18 novembre 1696 con il dramma per musica Comodo Antonino di Alessandro Scarlatti, al tempo maestro della Cappella Reale. In quel momento si affermavano i compositori, oltre a Scarlatti, Nicola Porpora, Domenico Sarro, Leonardo Leo, Leonardo Vinci, Johann Adolf Hasse. Nel frattempo il Regno di Napoli fu sottomesso agli Asburgo ponendo fine al vicereame spagnolo; la prima opera ad andare in scena al Teatro San Bartolomeo, dopo l'avvio della nuova stagione politica, il dramma per musica La fede tradita e vendicata. La cronaca della prima rappresentazione, cui parteciparono il nuovo viceré con la corte e la nobiltà napoletana, comparve nella “Gazzetta di Napoli” del 6 dicembre 1707: «Giovedì primo del corrente [1 dicembre] andò per la prima volta in scena nel teatro di S. Bartolomeo il dramma musicale intitolato La fede tradita e vendicata, ove fu a goderne il divertimento con tutta la nobiltà S. E. il viceré generale conte di Daun». Si trattava di una ripresa dell’opera rappresentata tre anni prima a Venezia, con libretto di Francesco Silvani e musica di Francesco Gasparini, adattata per la platea napoletana dal compositore Giuseppe Vignola e con scene comiche di Carlo De Petris, nel protrarsi dell’usanza di adeguare musica e testi al gusto partenopeo che, pur con difficoltà in quanto radicata nel gusto del pubblico, si avviava al termine. In quegli anni, infatti, a Napoli si compiva la più elaborata riforma del melodramma introdotta dalla poesia del Metastasio. Dopo aver preso i voti minori per ottenere lo status clericale Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi detto Metastasio aveva lasciato la nativa Roma per trasferirsi a Napoli allo scopo di lavorare presso l’avvocato Castagnola, che si era fatto promettere che non avrebbe più scritto versi per dedicarsi unicamente alla professione di legale. Il richiamo della poesia fu più forte che qualsiasi altro proposito e ben presto Metastasio dopo essersi avventurato«nel procelloso mare del foro partenopeo», si dedicò a quello ancor più tempestoso dell’arte di palcoscenico. Del 28 agosto 1720, scritta dal ventiduenne poeta e librettista per celebrare il compleanno dell'imperatore asburgico Carlo VI, fu rappresentata la serenata Angelica e Medoro da Ludovico Ariosto con musica di Nicola Antonio Porpora, presentata nel Teatro del Palazzo del principe di Torella, che segnò il debutto del quindicenne Carlo Broschi conosciuto con il soprannome Farinelli, nella parte di Medoro. Due giovani che sarebbero diventati i protagonisti dell’opera seria per i cinquant’anni a seguire, tanto da chiamarsi l’un l’altro «caro gemello». Furono per il San Bartolomeo anni difficili, dovendo affrontare non poche difficoltà economiche. Nei ventisette anni di dominio austriaco a Napoli la vita culturale visse momenti complicati, perché tra quei viceré non vi furono mecenati come lo erano stati i precedenti spagnoli e anzi privarono l’attività del teatro dei tremila ducati del sussidio. L’impresa nel 1725 fu assunta dall’imprenditore e architetto Angelo Carasale, che due anni prima aveva costruito il Teatro Nuovo, il quale superando ostacoli di ogni genere riuscì a scritturare compositori ed esecutori di successo, rinnovando l’interesse del pubblico, così che la sala ritornò agli antichi splendori. Angelo Carasale, di umili origini, grazie alle simpatie dell’ultimo viceré austriaco aveva ottenuto consensi sia quale architetto sia come impresario teatrale ed è una delle figure che caratterizzerà la vita teatrale napoletana sino ai primi anni di gestione del San Carlo. Sono i tempi della fioritura di Giovanni Battista Pergolesi che al San Bartolomeo tra il 1731 e il 1732 presentaLa Sallustia e il Ricimero con scarsa fortuna, anzi considerate dei veri “disastri”, cui segue nel 1733 l’opera seria Il prigionier superbo con l’intermezzo buffo La serva padrona, su libretto di Gennaro Antonio Federico. Il vicereame austriaco termina nel 1734 quando l’infante don Carlo di Borbone conquista il regnofondando la dinastia dei Borbone-Napoli, restituendogli l'originaria indipendenza. GiuntoviIl 10 maggio del 1735, non dopo intricate vicende politiche, Carlo di Borbone era entrato a Napoli accolto da una popolazione esultante, incoronato il successivo 3 luglio nella cattedrale di Palermo re di Napoli e di Sicilia. L’amministrazione del nuovo re si era distinta da subito a favore del teatro con provvedimenti e sussidi come mai era avvenuto prima. All’insediamento sul trono Carlo di Borbone-Napoli apporta tutta una serie di novità che si riveleranno particolarmente feconde per le arti della scena, con la moltiplicazione di generi e luoghi. La visita al San Bartolomeo è uno dei primi atti dopo la cacciata degli austriaci e il re vi si recherà frequentemente avendolo scelto quale sala regia, facendo sottoporre il teatro nuovamente a un rifacimento, essendo stato eletto a uno tra i luoghi deputati alle apparizioni pubbliche del re e alle celebrazioni di eventi politici e dinastici. Nella stagione 1735/36 vi andò in scena La nemica amante di Davide Perez, già eseguita nei giardini di Palazzo Reale, dove per l’ultima volta comparvero le “parti buffe” che tanto avevano caratterizzato il palcoscenico napoletano, genere non gradito al nuovo monarca. Re Carlo era tutt’altro che uno spirito artistico, non gradiva la poesia e tanto meno la musica. Esclamava Charles de Brosses, filosofo e politico francese: «Cethommeassurément n’aime pas la musique». Al San Bartolomeo era tornato l’impresario Angelo Carasale, che su mandato del sovrano aveva scritturato i più conosciuti cantanti, ballerini e direttori di scena d’Italia. Nella vita dello storico edificio, prossimo al tramonto, cambiarono abitudini e programmazioni a vantaggio degli spettacoli coreutici che s’insinuarono al posto degli intermezzi buffi. Il giovane Carlo di Borbone, seguendo il proprio gusto per lo spettacolo, fece introdurre da subito questi balli nel palinsesto delle serate, pur senza sovvertire l’economia dello spettacolo “tradizionale”. La presenza del re comportava un aumento dell’illuminazione, con particolare impegno durante le serate di gala, per il Natale e in occasione dell’onomastico. L’attività del San Bartolomeo, dall’avvento della dinastia, apparve esplicitamente quale emanazione del gusto e munificenza del re sennonché, nonostante le modifiche apportate, il palcoscenico si mostrò insufficiente al dispiegamento delle grandi scenografie e la sala scomoda per la nuova fastosa corte e per di più l’edificio situato in un luogo considerato poco conveniente per il sovrano. Già nel 1736 s’incominciò a vagheggiare di costruire un teatro in un luogo più consono alle rinnovate esigenze di rappresentanza e dopo poco tempo iniziarono le pratiche con la Santa Casa degli Incurabili, la quale nel 1736 cedette il teatro in cambio di un assegno annuale di duemiladuecento ducati. Il San Bartolomeo fu chiuso definitivamente nel 1737, quando il nuovo Regio lo sostituì quale luogo deputato all'esecuzione dell’opera reale. La realizzazione del San Carlo non fu che una continuazione, ulteriore e più esplicitadichiarazione da parte del re dell’impiego politico e governativo del teatro musicale e del luogo ad esso deputato.
IL TEATRO DELLA PACE
Come precedentemente riportato a Napoli sorsero a distanza di pochi anni, tra il Fiorentini e il San Bartolomeo, numerose nuove strutture, tra cui le due più rilevanti furono il “Nuovo” Teatro della Pace o del Vico della Lava e il Nuovo sopra Montecalvariopoi solamente Nuovo. Scrive Francesco Florimo in uno dei suoi libri dedicati ai teatri napoletani, attribuendo al Teatro della Pace la primogenitura sul San Bartolomeo: «(…)al tempo della Commedia, e prima del Teatro di S. Bartolommeo si nomina il Teatro della Pace (...) e non se ne conosce l'anno di fondazione». In una relazionereperita da Benedetto Crocedatata 13 novembre 1749 dell'Uditore dell' Esercito Saverio Donati, riportata nel suo “I teatri di Napoli” è scritto: «(…) il sudetto teatro della Pace fu formato, per divertimento del pubblico, nell'anno 1718, prima dell'altro sopra Montecalvario denominato il Teatro Nuovo (…) per recitarvi opere in musica». In altra relazione dello stesso Uditore sempre riferendosi al Pace si legge: «dapprima si formò nella sala d'una casa, che si possedea dal Principe di Chiusane Caraffa». Il Teatro Pace fu aperto con tutta probabilità nel 1718accanto al Conservatorio della Madonna dei Sette dolori con entrata dal vicolo della Lava, vi recitarono compagnie d' istrioni e divenne ben presto palcoscenico per la commedia in musica. Riporta Sebastiano Donati studioso del tessuto culturale del territorio campano: «pel principio si fecero delle (opere) eroiche buone» in seguito, però, si perse una linea di programmazione uniforme e vi si eseguì ogni tipo di genere.Al Pacenel ‘24 significativa nell’evoluzione compositiva settecentescaLa mogliere fedele composta da Leonardo Vinci «Commedia pe museca da rappresentarese a lo Teatro Nuovo de la Pace a Primmavera de chits’ anno 1724 addedecata a l’accellentissimo sig. lo sio Conte Cario Manuele d’Althann, Nepote de S. E.», preceduta da un prologoin cui s’illustra del «teatro noviello … per farence cantà commedie nove»,significativo proponimento declamato dalla“Sirena di Napoli”: «che bene pe mmaro 'ncopp' a no carro tirate da duje Cavalle Marine, accompagnata da quattro uommene marine». In autunno Lo sagliemmanco falluto«Commeddia pe museca Da rappresentarese a lo Teatro Nuovo de la Pace st’Autunno de l’Anno 1724. Addeddecata A la Llostriss. ed Accellentiss. Segnora La Segnora D. Margarita Fortonata Caracciolo».Le attività del Pace si protrassero sino al 1749, ma il teatro non ebbe vita felice, perché di dimensioni insufficienti e mal collocato: «Il luogo non solo non è ampio, ma è molto angusto, e la spesa eccede di gran lunga al profitto che se ne ritrae dall' appalto dei Palchi, che consistono in soli tre ordini». Vi si esibivano oramai compagnie secondarie ed era centro di malessere per i molti scandali provocati dalle canterine “napoletane” e “toscane” che vi si esibivano «con rovina delle famiglie».Oltre a ciò: «v'erano un cortile, certe camere inferiori e superiori, nelle quali per l'abbuso della gente scorretta correa voce chesi commettessero delle laidezze». A tal punto che spesso le autorità si trovarono costrette a confinarle nelle periferie della città e l’attività del teatro frequentemente interrotta. Il Pace fu chiuso definitivamente per ordine di Carlo di Borbone nel 1749.
IL TEATRO NUOVO
Il Teatro Nuovo si colloca nel 1723, edificato su progetto dell’architetto e scenografo Domenico Antonio Vaccaro, nel cuore dei quartieri Spagnoli. Committenti gli impresari Giacinto (o Giacomo) De Laurentiis e Angelo Carasale. Il Vaccaro in precedenza si era dedicato solo palazzi e chiese e si volle cimentare, in uno spazio relativamente limitato, nel realizzare una sala dalla classica forma a ferro di cavallo, dotata di cinque ordini, ognuno diviso in tredici palchi, ottenendo seicento posti e sfruttando la pendenza del terreno per ricavare una platea capace di duecento spettatori. Fino allora il più delle volte le sale erano state concepite come un unico spazio con un palco e una platea, con panche o sedie. L’architetto con il progetto ottenne il teatro più capiente di Napoli, inaugurato nel settembre del 1723 con la prima assoluta de La Locinna di Antonio Orefice. L’anno successivo in scenaLo simmeledi Bernardo Saddumene, per oltre un decennio il più fecondo poeta dell’opera buffa napoletana: «Commeddeja (…) da recetarese a lo Teatro nuovo de Montecalvario nchist’Anno 1724.Addedecata all’Ammenentissemo Segnore lo Si Cardenale Michele Federico d’Althann (…)».Al Nuovo erano rappresentate primariamente opere buffe, oltre che prosa, frequentato dal popolo, aveva suscitato sin dagli esordi curiosità tra i nobili. Caratteristica del palcoscenico, non vi erano montate macchine strabilianti al gusto Barocco, bensì vi si riproducevano le strade, i luoghi più popolari della città e vi si esibivano artisti napoletani. Solo in un secondo momento vi apparvero i personaggi “nobili” che non parlavano in dialetto, bensì pronunciavano in “toscano” ed anche al Nuovo, tra le “sue” canterine, nacque la rivalità tra le “virtuose toscane” e le interpreti locali. Divenne ben presto il tempio dell’opera buffa e già dall’anno successivo all’apertura si pose quale principale concorrente dei Fiorentini con la proposta di un genere sempre più in voga e richiesto dal pubblico. Nel 1767 il diciottenne Vittorio Alfieri, dimorando a Napoli, non provava piacere più vivo che assistendo all’ «opera burletta» al Nuovo. Con il tempo il teatro, avendo accolto con successo i lavori dei maggiori compositori, assunse un ruolo di merito tanto da essere frequentato, agli inizi del suo regno, da Carlo di Borbone. La voce popolare narra che il re aveva istaurato una relazione con una soubrette della compagnia del Nuovo e che la regina, scoprendo il tradimento, volle vendicarsi e come per coincidenza durante una serata di gala del Regio, al Nuovo scoppiò un incendio. Ad inizio ottobre del 1775 la prima della commedia per musica Il Socrate immaginario di Giovanni Paisiello che riscosse un tale successo che Ferdinando IV, succeduto al trono al padre Carlo, la volle far rappresentare a Palazzo Reale il 23 dello stesso mese. La notte del 20 febbraio 1861 un vero incendio lo distrusse e fu rifabbricato su disegno dell’architetto Ulisse Rizzi, che ne era comproprietario, riaprendo nel 1864. I lavori si prolungarono, nel frattempo Napoli era stata annessa al Regno d’Italia e nel nuovo corso si comprese che il Nuovo non avrebbe più ricoperto quel ruolo che lo aveva reso tra i teatri più frequentati di Napoli. Il 15 marzo 1895 vi si rappresentò L’amico Francesco commedia lirica con musica di Mario Morelli che segnò il debutto di Enrico Caruso che percepì quale compenso ottanta lire. In seguito il palcoscenico fu calcato da artisti quali Raffaele Viviani, Totò, i fratelli De Filippo. Nel 1935 il teatro fu nuovamente distrutto da un incendio e non fu ricostruito che nel 1985. Il teatro è tutt’ora in funzione.
IL TEATRO DI SAN CARLO
Del 1737 è il Regio Teatro di San Carlo, punto convergente non solo del dinamismo teatrale napoletano, dell’importanza della sua tradizione, ma anche di strategie e di culture secolari. Il San Carlorimane uno dei teatri più importanti d’Europa, il più antico operante, non solo per l’imponente struttura e la ricchezza della decorazione della sala, cui oggi si aggiungono le più elaborate tecnologie di palcoscenico, ma perché simbolo eclatante di tutto ciò che Napoli ha rappresentato nei secoli nella cultura musicale. La sua storia, l’attività dei conservatori, dei precedenti edifici adibiti allo spettacolo, fossero questi stamberghe popolari o luoghi d’incontro dell’aristocrazia, a Napoli in un tutt’uno di vitalità. Fucina di talenti, compositori ed esecutori, grazie a intraprendenti impresari e a gestioni felici, ma anche di umana disillusione, tutti hanno lasciato un segno indelebile del patrimonio artistico caratterizzante, non solo legato a epoche distinte, bensì dell’intera arte di palcoscenico. Sminuita sarebbe la rilevanza delMassimo partenopeo senza tutta la storia che lo avvolge e di cui si erge a monumento. Nato come Teatro del Re, allo stesso tempo raccoglie ed esalta le più antiche esperienze delle “Stanze”e il San Carlo continuerà a essere “grande” in virtù dei musicisti e artisti che ne calcheranno le scene. Voluto espressamente da re Carlo, primo della dinastia Borbone-Napoli, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta, ultima dell’influente famiglia dei Farnese, dalla quale erediterà non solo l’abilità della gestione della politica, ma l’apprezzamento per le arti, convogliando su Napoli il vasto patrimonio della storica casata, da cui il Museo Archeologico e Capodimonte. Carlo di Borbone giunto a Napoli frequentò il Teatro San Bartolomeo, saltuariamente le recite a corte, disdegnando i “teatri piccoli”. Non amava particolarmente il genere musicale preferendo il ballo, egualmente volle che la dinastia, che aveva restituito a Napoli la dignità di capitale dopo secoli di vicereami francese, spagnolo, asburgico, fosse rappresentata da un teatro che sbalordisse per immagine di grandiosità, simbolo di rinascenza e rappresentante il potere regio, al pari e ancor più di altre capitali europee. Lo spettacolo operistico era l’intrattenimento favorito dai regimi per ragioni anche di governo e la fastosità dello spettacolo era segno della prosperità dello stato. Carlo di Borbone sin dai primi anni fu promotore d’importanti progetti edilizi destinati ad arricchire Napoli di monumenti, palazzi e ville, maritenendo che il San Bartolomeo non fosse all’altezza delle sue ambizioni, s’imposenel dotare Napoli di una sede teatrale prestigiosa,imponente, moderna e funzionale. Scrive Francesco D’Onorio nel 1776:«Voleva il Re Carlo che vi fossero pubblici ed onesti teatri, acciò la gente andasse a divertirsi, per il finale che essendo così occupata la gente non era soggetta ai cattivi suggerimenti dell’ozio: anzi citava Egli sempre la massima di un vecchio Governatore “spagnuolo” che quando sapea esservi delle commedie (…) stava spensierato e contento, non temendo allora disordine alcuno». Il Teatro San Bartolomeo era di proprietà della Casa degli Incurabili e già nel maggio del 1734 il capitano della guardia regia, Lelio Carafa marchese d’Arienzo, faceva relazione circa le precarie condizioni dell’impresa. Nel frattempo il monarca aveva commissionato alle Fabbriche Reali di progettare il nuovo teatro in un luogo di comoda frequentazione. Si iniziarono a studiare le piante delle maggiori sale d’Italia, specialmente dell’Argentina di Roma e del Filarmonico di Verona, infine fu approvato il disegno dello spagnolo Giovanni Antonio Medrano, colonnello del Reale Esercito e il 4 marzo firmato il contratto, con l’impegno che il nuovo edificio fosse consegnato entro la fine dell’anno. I lavori per il Regio, appaltatore Angelo Carasale, iniziarono il 4 marzo 1737 con il preventivo che si aggirava sulla cifra, già altissima, di settantacinquemila ducati, lievitatando sino a centomila ducati, di cui trentaduemila furono donati dal re, altri da reperire con la vendita delle prime quattro file di palchi, quelli “nobili”, stimati ognuno fra un minimo di cinquecentottanta e un massimo di settecentosettanta ducati. Fu abbastanza facile raccogliere i fondi necessari: «possedere un palco divenne un elemento di prestigio, acquisizione d’importanza per i blasoni napoletani, che si graduavano per nobiltà secondo la vicinanza col palco reale, anche a costo d’indebitarsi o di alienare beni di famiglia». L’architetto pensò a un teatro addossato al lato nord di Palazzo Reale, lateralmente per non disturbarne l’eleganza della facciata, tracciandolo nel più tradizionale degli stili “all’italiana”.Fu per la notorietà raggiunta dalla sala del San Carlo, chela sperimentata pianta a “ferro di cavallo” s’imposequale modello in tutta Europa; il progetto prevedeva fosse lunga 28,60 e larga 22,50metri, con centottantacinque palchi e un “reale magnifico”. Scriverà negli anni successivi l’architetto e critico d’arte Francesco Milizia: «Il San Carlo è a ferro di cavallo (…) Il maggior diametro della platea è di circa settantatre piedi parigini (…) vi sono sei ordini di palchetti con un superbo palco reale in mezzo del secondo ordine». Ogni loggia avrebbe avuto alle pareti laterali uno specchio inclinato per riflettere il trono, affinché nessuno potesse battere le maniprima del re, che aveva diritto al "primo applauso", in sua assenza la regina, poi il privilegio passava il principe di Maddaloni, altrimenti al principe di Sirignano e così via, secondo una rigida etichetta. Solo il loggione non aveva specchi, era quindi libero da qualsiasi condizionamento. Il palcoscenico si presentava quasi quadrato, enorme per l’epoca misurando 33,10 per 34,40 metri, vantando eccellente profondità e spazi agevoli per i movimenti scenografici. La facciata fu ideata il Medrano con portale decorato da statue e fregi, molto somigliante a quello della Reggia di Capodimonte. Il Carasale, lavorando al fianco del Medrano, scelse per il nuovo teatro materiali duraturi e resistenti quali la pietra e i mattoni, utilizzandoli anche nelle sale interne, nell’atrio e corridoi. Il legno fu utilizzato per la platea, il palcoscenico e i palchi, per ragioni di acustica che, in questa prima sala settecentesca, si mostrò assai carente. Si volle interpretare anche simbolicamente la scelta dell’uso della pietra e dei mattoni, oltre che a difesa (invano) dagli incendi, quale dimostrazione della stabilità operativa del nuovo edificio impostato ad attività permanente, di risaltante monumentalità fra tutti i fondamenti cittadini equale affermazione di solidità del nuovo regime monarchico.Non si ha documentazione certa sulla tela o tele che delimitavano il boccascena. Pietro Napoli Signorelli ne accenna nel 1813 ne “La storia critica de’ Teatri antichi e moderni”: «Lo splendore della sala trovavaun preciso riscontro nella magnificenza del proscenio ed anche il gran telone o sipario dipinto di sughi d’erba fece per lungo tempouno spettacolo anch’esso degno di ammirarsi, che il tempo negli ultimi anni ha obbligato a cambiare». Acquistato dalla corona lo storico San Bartolomeo, fu demolito con recupero del legname per la costruzione del nuovo. Al posto del San Bartolomeo l’impresario Angelo Carasale edificò una chiesetta, inaugurata nel settembre del 1738 con la dedica a Santa Maria delle Grazie, chiamata “La Graziella” e alcuni resti dei palchi della vecchia struttura sono ancora visibili all’interno. Il San Carlo fu edificato rapidamente, in poco più di sette mesi, da marzo a ottobre e il 23 ottobre del 1737 ne venne scoperta: «la maestosa facciata». Per lo spettacolo d’inaugurazione ci si assicurò che tutti e tre i libretti fossero del «Pietro abate Metastasio (…) che tra i poeti, i quali nel secolo presente fioriscono nella composizione dei drammi, il più concettoso». Tra i maestri di cappella fu scelto Domenico Sarro: «uomo molto sperimentato». Il 4 novembre 1737, giorno di San Carlo Borromeo e onomastico del sovrano, il Real Teatro fu inaugurato con L’Achille in Sciro di Pietro Metastasio, musica di Domenico Sarro, opera seria preceduta da un “Prologo Encomiastico” e intervallata da “tre balli per intermezzo” creati da Francesco Aquilante. Nel prologo innanzi al Genio reale si presentavano la Magnificenza, la Gloria e la Celerità: «Genio real, di già compita è l’opra (…)». Come usanza dell'epoca il protagonista Achille è interpretato da una donna Vittoria Tesi detta “la Moretta”, con accanto la prima donna soprano Anna Peruzzi, detta “la Parrucchierina” e il tenore Angelo Amorevoli. Quella sera: «(…) si videro tutti i palchi riempiti di dame, adorne di ricchissimi abiti e di preziosissime gemme, come altresì di cavalieri in abiti di sfarzosissima gala (…)». Nei cinque palchi a destra e cinque a sinistra del reale si affollava la corte; presente tutta la nobiltà. A Domenico Sarro fu riconosciuta la cifra dimillesettecentotrentasette ducati: «in soddisfazione della composizione del prologo e opera in musica». La serata fu splendida, come riportato da Alexandre Dumas-père, certamente non favorevole alla dinastia borbonica. Dice la leggenda, avvalorata dallo stesso Dumas, che re Carlo nel fare i complimenti all’imprenditore e architetto Carasale aggiunse: «Vi siete dimenticato di fare un passaggio dalla reggia direttamente nel teatro». L’architetto volle porvi rimedio: «in tre ore, abbattendo mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni, coprendo con tappeti ed arazzi la ruvidezza del lavoro (…)». Si narra, quindi, che al termine dell’evento inaugurale, il re alzandosi per avviandosi all’uscita fu fermato dal Carasale che indicò al sovrano la nuova apertura per recarsi direttamente ai suoiappartamenti: «prego Maestà, da questa parte». Secondo titolo in programma L’Olimpiade di Leonardo Leo e terza, poiché Nicola Porpora non aveva consegnato la musica come stabilito, dello stesso Vinci L’Artasersegià dato a Roma sette anni prima. Samuel Sharp, medico giamaicano nelle Letters from Italy scritte da Napoli nel 1765/66, tradotte e pubblicate da Salvatore Di Giacomo, scrive delle serate trascorse a teatro, disquisendo sulla sala e lamentando che il teatro era «(…) piuttosto adatto alla vista che non all’udito» e che i napoletani «(…) vanno a vedere, più che a sentire l’opera». Ancora:«La costruzione è tutta di pietra: le scale sono magnifiche spaziosi gli accessi, i vestiboli, i corridoi (…)». Lamenta, inoltre, i prezzi troppo alti e argomenta sulle cenette, sulle partite a carte nei retropalchi e sui compensi dei cantanti, rassicurando, però, che le ballerine indossavano tutte, per imposizione della corte, mutandine nere. Una gestione così diretta impegnò Carlo anche sul fronte economico, il sostegno finanziario salì a tremiladuecento ducati annui arrotondati dall’introito del gioco d’azzardo, per quanto legalmente proibito, lasciato in monopolioal Carsale che doveva garantire lo “splendore” del teatro. Son gli anni felici dell’impresariato di Angelo Carasale che nei suoi primi quattro anni di attività fu definito “uomo dei miracoli”; si prodigò al servizio del sovrano assecondandone i gusti, adattando la programmazione con preferenza alla danza e per questo fervore acquisì una posizione diprivilegio. Prima che al San Carlo, già nel 1725 era stato impresario del Nuovo e durante il governo austriaco anche del San Bartolomeo, venendo così a controllare i due più importanti teatri della città. Uomo di fiducia del nuovo re Borbone riebbe la gestione del San Bartolomeo nel 1735 e nelle vesti di architetto e impresario teatrale fu colui che insieme a Medrano edificò il Reale e ne fu l’impresario sino al 1741. Durante la sua gestione si esibirono a Napoli artisti destinati a rimanere nella storia della musica, mantenendo sempre vivi i rapporti con compositori e poeti. Apprezzato per le sue iniziative e spregiudicatezza, divenne nel volgere di pochi anni l’assoluto padrone della scena napoletana. Tale situazione e potere causarono molte gelosie, di cortigiani, impresari concorrenti e nobiluomini, scontenti della presenza a corte di un individuo di natali umili. Fu presa a pretesto una zuffa di gioco nella quale, si disse, fosse coinvolto e d’improvviso si trovò inviso agli occhi della famiglia reale. Venne arrestato dopo indagini sul suo operato, accusato di frodi e travolto dallo scandalo. Fu imprigionato a Castel Sant’Elmo, dove ebbe fine la sua fortuna, il corpo trasferito di notte nella chiesetta della Graziella, edificata per sua iniziativa al posto del vecchio San Bartolomeo. Fu sostituito da Gaetano Grossatesta, autore dei balli che avevano accompagnato il 4 novembre 1737 la serata inaugurale, nominato maestro di danza delle giovani principesse; impresario e coreografo del Reale, diede vita a una delle gestioni più durature. Da quel momento i libretti editi a Napoli riportarono sempre indicazione dei balli che vi erano inclusi. Re Carlo era ghiottissimo delle parti danzate, tanto che sovente si leggono gli ordini di disporre le cose in modo di assistere a un solo atto dell’opera, ma almeno a due balli. In quei primi anni il Massimo cittadino fu sede esclusiva di opera seria con artisti napoletani, ma la sua reputazione crebbe a tal punto da attirare personalità illustri da ogni parte d’Europa. La soprintendenza, insieme alla polizia del teatro, rimase affidata all’Uditore dell’esercito, stabilito un regolamento con cui si proibiva a chiunque del pubblico di salire sulla scena, di battere le mani o accendere lumi e di chiedere il bis, prerogativa esclusiva del sovrano; si escludevano dalla platea i servitori di livrea. Vi era, inoltre, il divieto di usare tendine nei palchi per evitare complotti, precise le istruzioni sull’illuminazione. Al San Carlo era stata edificata una cappella con altare nella devozione di Sant’Antonio, protettore contro gli incendi, seguendo l’antica tradizione di quasi tutte quelle baracche o cantine dove era posta l’immagine della Madonna, innanzi alla quale l’impresario curava che fosse sempre una lampada accesa e la sera della prima rappresentazione quattro ceri. I compositori furono i più famosi del tempo, nei primi anni sul palcoscenico le opere erano provenienti dai conservatori della città composte dai musicisti più celebrati, così come lo erano i solisti: Leonardo Leo, Niccolò Porpora, Leonardo Vinci, Johann Adolf Hasse, Gaetano Latilla, Niccolò Jommelli, Baldassarre Galuppi, Niccolò Piccinni, Antonio Maria Gaspare Sacchini, Tommaso Traetta, Giacomo Tritto, Giovanni Paisiello, Domenico Sarro e Carlo Broschi. Nel 1742, per le mutate esigenze del gusto e dalla necessità di migliorarne l’acustica, il teatro fu ammodernato da Giovanni Maria Galli Bibiena il Giovane. Nell’agosto del 1752 a Napoli il compositore ChristophWillibaldGluck«nuovo qui e oltremodo dotto del suo mestiere, dal quale si sperava una musica di stile tutto vario e mai più intenso» che espressamente vi compose, quale diciannovesimo adattamento del libretto di Metastasio, La clemenza di Tito opera seria con la quale s’inaugurò la stagione il 4 novembre 1752/53, suscitando anche a Napoli vivaci dispute tra compositori e pubblico. A seguito dell’imprevista successione al padre Filippo V e al fratellastro scomparso immaturamente, nel 1759 Carlo di Borbone, ascende al trono di Spagna e accingendosi alla partenza per essere incoronato con il nome di Carlo III, si raccomanda con l’impresario Grossatesta: «rimanga a servire mio figlio», il giovane Ferdinando IV, allora di soli nove anni. Nel periodo della reggenza del segretario di stato Bernardo Tanucci non si ebbero eventi di particolarmentesignificativi. Tanucci dal 1760 sospese la “sovvenzione regia” e la gestione del teatro fu assegnata a una Giunta e più tardi a una Delegazione teatrale. Questi costituirono una mediazione di tecnici e d’intellettuali che rappresentò una svolta rispetto al controllo diretto della corte sulle scelte programmatiche della scena napoletana. La funzione e il ruolo del Regio vennero modificandosi, di pari passo con la sempre maggiore dignità artistica, culturale e sociale assunta dal repertorio dei “teatri minori”. La commedia in musica, intrisa di sanguigni umori popolari, si andava trasformando nell’opera di mezzo carattere o semiseria, polarizzando l’attenzione del pubblico. Negli ultimi due decenni del secolo furono addirittura eseguite al San Ferdinando opere di forte carattere innovativo, che non solo misero in discussione l’unicità di un’unica sede destinata al “dramma per musica”, ma entrarono in diretta competizione con il San Carlo. L’attività del teatro cominciò a declinare, né le cose migliorarono nei successivi anni di regno di Ferdinando IV, ricercatore instancabile di soddisfazioni “terrene”, più che di quelle dello “spirito”, d’indole bonaria riserverà per Napoli in campo musicale un sostanziale sovvertimento dell’ordine costituto. Il nuovo sovrano stimava ben poco l’opera seria durante la quale dormiva «rumorosamente», come scriverà la moglie Carolina lamentandosi con la madre Maria Teresa imperatrice d’Austria. Nel 1767, in occasione del suo matrimonio con Maria Carolina, furono affidati a Ferdinando Fuga i lavori di rinnovamento della decorazione della sala e nei palchi collocate nuove grandi specchiere provviste di torciere con candele, che ne amplificavano la percezione, producendo riflessi luminosi che nei giorni di gala facevano risplendere la sala. Il palco era considerato dalla nobiltà quale estensione del proprio palazzo, arredato a proprio gusto. Per un’immagine illustrativa dello scorrere delle serate, ritroviamo lo storico Francesco Milizia, all’epoca al servizio di Ferdinando IV quale amministratore: «Chi discorre (…) chi legge, chi sbadiglia, e v’è anche chi dorme. (…) E l’Opera, la grande Operà, dov’è? Colà in fondo (…) veggonsi muovere e andar avanti e a dietro alcune figure in abiti straordinari (…). Da quelle strane figure si sente talvolta trapelare qualche esilissima voce, non si odono giammai parole, si veggono dei moti, ma mai gesti. (…) L’Opera va alle stelle se nelle quattro cinque ore (…) la maggior parte degli spettatori (…) dà segno di voler ascoltare quel che per un quarto d’ora canta un solo, o una paio di attori». Dal 1777 al 1778 è la ricostruzione del boccascena con il raddoppio delle colonne e l’inserimento dei palchi di proscenio. Nel 1797 la sala è sottoposta a un restauro delle decorazioni sotto la direzione dello scenografo del teatro Domenico Chelli. Il suo intervento non fu apprezzato, in particolare per la soluzione adottata di un velario nel soffitto su cui era dipinto un finto pubblico. Negli anni seguenti Niccolò Jommelli, di ritorno a Napoli, commentò sulle prassi esecutive in vigore: «una dissipazione continua, un cicaleccio importuno, un gusto per la musica molle e snervata (…) una libertà di cantare a capriccio». L’amministrazione dei teatri fu riformata nel 1778 con l’abolizione della Giunta, sostituita da una deputazione di quattro gentiluomini e con la nomina a poeta di corte di Luigi Serio. Nel 1799, durante la Repubblica Partenopea, il San Carlo continuò a operare, ma gli effetti della rivoluzione francese determinarono cambiamenti nella vita teatrale. Dopo l’invasione delle truppe napoleoniche venne mutato il nome da Real Teatro in Teatro Nazionale e all’interno gli spettatori gridano «Viva la libertà»,«Morte al tiranno». Si legge su “Il Monitore Napoletano” in data 27 gennaio 1799 con riferimento all'Inno composto da Domenico Cimarosa sulle infiammate liriche del poeta giacobino e massone Luigi Rossi: «Nel Teatro Nazionale di San Carlo fu cantato un inno patriottico in mezzo a' più lieti evviva alla Libertà». L’inno, composto dal “cittadino” Cimarosa, era stato intonato per la prima volta per la festa “de' 30 fiorile” (19 maggio)sotto l' “albero della libertà” avanti a quello che era Palazzo Reale, rinominato“Palazzo Nazionale”.Al San Carlo/Nazionale non vi furono modifiche sostanziali, a eccezione della riparazione di alcuni danni provocati a quando la sala era stata utilizzata per spettacoli equestri. Le stagioni sancarliane dei primi anni dell’Ottocento presentano qualche nome oscuro tirato fuori per l’occasione, poiché totalmente estraneo alla politica. Gli eventi si susseguono velocemente, ferocissima con la Prima Restaurazione la reazione di re Ferdinando contro i simpatizzanti giacobini: Cimarosa presagendone il ritorno si era affrettato e musicare un inno anti-francese e pro Borbone, ma fu egualmente imprigionato e condannato a morte, pena poi commutata in esilio, Piccinni sospettato e perseguitato trovò rifugio in Francia, Paisiello fu costretto a implorare perdono. Altro rivolgimento politico, con la successiva fuga dei Borbone. Nel 1806 Giuseppe Bonaparte è incoronato re di Napoli, ma due anni dopo Napoleone lo vuole sul trono di Spagna e a succedergli sceglie il marito di sua sorella Carolina, il Maresciallo di Francia Gioacchino Murat, cui fu attribuito il nome di "Gioacchino Napoleone". In quel tempo si fece conoscere un giovane compositore di Palmi in Calabria, Nicola Manfroce, che se non fosse morto a Napoli “per il celebre Cotugno alla testa” cui nulla valsero le cure e il personale interessamento della regina Carolina Murat, si preannunciava come artista dalle grandi possibilità. Presentò la sua Ecuba al San Carlo il 20 dicembre del 1812, nei caratteri formali della tragédie lyrique, ottenendo un trionfo di pubblico e di critica.Il San Carlo negli anni di Gioacchino Napoleone torna a essere uno strumento governativo, centro di propaganda culturale e politica, francesizzandosi anche nel repertorio.Durante il decennio, dal 1806 al 1815, per volere del nuovo re furono eseguiti nel teatro lavoristrutturali di rilevante importanza, vennedecretata la sostituzione dell’antica facciata del San Carlo di Giovanni Antonio Medrano del 1737, valutata poco “solenne” per un luogo rappresentativo. Murat pretese che se ne realizzasse una nuova, degna della capitale e incaricò l’architetto pisano Antonio Niccolini di elaborare, con il riassetto di piazza San Ferdinando, il nuovo volto del teatro. Con il rinnovato edificio furono costruiti gli spazi per la scuola di ballo, tra le più antiche al pari di quella del Regio Ducal Teatro alla Scala ed istituitala scuola di scenografia, quest’ultima realizzò con la direzione dello stesso Nicolini allestimenti per ben 146 opere e 115 balli, oltre quelli conseguiti in contemporanea per il Teatro del Fondo. Si espresse appieno nella facciata esterna in stile Neoclassico,ispirandosi al disegno di Pasquale Poccianti per la villa di Poggio Imperiale di Firenze. Vi fece porre sulla sommità un gruppo scultoreo rappresentante “la Triade della Partenope”, conferendo così la connotazione di tempio.Estese il suo intervento alla sala, mantenendo l’impronta originale a pianta a ferro di cavallo. I lavori, iniziati nel dicembre 1809, terminando due anni più tardi. All’esterno, in piena massoneria napoleonica, fu collocata una fila di pigne a “proteggere” la facciata. Il progetto, però, fu realizzato solo in parte. Con la caduta di Napoleone i Borbone erano tornati nuovamente sul trono e alla Restaurazione del 1815 Ferdinando di Borbone dovette impegnarsi in considerevoli spese per mantenere a Napoli le truppe austriache, accorse per liberare la città dai francesi. Apochi mesi dal ritorno del re, la notte tra il 12 e il 13 febbraio del 1816, un rogo si sviluppòda una lanterna lasciata accesa durante la prova generale di un ballo distruggendo il teatro, ne rimaserosoltanto i muri perimetrali. Dopo alcuni giorni Ferdinando IV di Borbone-Napoli, dal dicembre del 1816 con l’accorpamento dei regni Ferdinando I di Borbone-Due Sicilie, incaricò una commissione di cinque nobili coordinati dall’impresario Domenico Barbaja per sovrintendere alla ricostruzione, senza badare a spese, affinché il tempio dell’opera,uno dei gioielli più preziosi della sua corona, rinascesse a simbolo delregno. Antonio Niccolini, che già sotto il regime napoleonico aveva realizzato la nuova facciata, sottopose nella sua interezza il progetto che aveva ideato sei anni prima per il governo napoleonico, che fu approvato. Bastarono nove mesi per ricostruire il San Carlo, poco meno di un anno dall’incendio alla solenne riapertura. L’architetto conseguì una sala neoclassica, diversa da quella barocca andata in fiamme, non solo restituendo al teatro un rinnovato splendore, ma migliorandolo rispetto al precedente in non pochi aspetti, come nella spaziosità e l’acustica. Le sembianze con le quali il San Carlo fu ricostruito sono quelle che possiamo ammirare tuttora, eccetto che per i colori della sala che continuarono a essere simili a quelli originari del 1737. Una nota del duca di Noja a margine del bozzetto del 1816 testimonia che l’azzurro, colore ufficiale di casa Borbone, fu ripristinato su volere del re, perché il teatro restasse il più possibile uguale a com’era prima che il fuoco lo distruggesse. Dominante, realizzata e posta quale soffitto della sala, la grande tela di 500 metri quadrati dei Cammarano, con Antonio, Giovanni e Giuseppe, raffigurante Apollo che presenta i sommi poeti alla dea Minerva. Questa fu realizzata non solo a scopo decorativo, altresì in posizione sottostante rispetto alla travatura, formando una cassa di risonanza ideale per la distribuzione del suono.Per ottimizzarne l’acustica furono, inoltre,realizzate le balaustre ed elementi decorativi dell’interno in cartapesta, applicati con tecniche che contribuissero all’assorbimento del suono. Introdotti da Camillo Guerra e Gennaro Maldarelli altri particolari ornamentali, fra cui il bassorilievo e l’orologio alla francese nel sottarco del proscenio in cui vi è Crono, dio del Tempo, raffigurato come un vecchio nudo con le ali, nel simbolismo che “l’arte non ha tempo”. Tradizione vuole che la sirena, rappresentata in basso, suggerisca al Tempo di far scorrere più lentamente i minuti, in modo da poter godere della bellezza delle arti simboleggiate dalle Muse: Poesia, Musica, Danza. Ampliato il palcoscenico fino a superare per grandezza la platea, aggiunto il proscenio, completava l'arredo il sipario su disegno di Antonio Nicolini, con pittura di Giuseppe Cammarano, lo stesso artista che aveva dipinto il soffitto.Emanuele Taddej in “descrizione istorica dell’incendio e del restauramento del Real Teatro di San Carlo, dal dì 13 di febbraio 1816 a’ 12 di gennaio 1817” descrive la tela: «Vedasi in essa, nell’alto dell’Olimpo, Giove dal quale parte un raggio di luce che cade ad illuminare il Genio del Regno, sul cui scudo sta effigiata l’immagine di Ferdinando (…)». Il sipario venne più volte ripreso nella verniciatura dallo stesso Cammarano e restò in uso sino al 1844. Il teatro fu riaperto il 12 gennaio 1817, giorno del sessantaseiesimo compleanno di re Ferdinando, con l’opera appositamente composta da Giovanni Simone MayrIl sogno di Partenope, seguita da un ballo creato da Salvatore Viganò. Il pittore di gouachesFerdinando Roberto,con il suo lavoro a temperadel 1825,testimonia l’unica rappresentazione visiva della colorazione originale della sala, così come apparve nel 1817. Il palco reale era rosso “pallido”, le decorazioni in argento brunito con riporti in oro, mentre i palchi in azzurrobleu-de-cielfoncé, come li definì Stendhal presente all’inaugurazione. «In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli» affermò lo scrittore francese nel suo diario di viaggio riferendosi al San Carlo, aggiungendo«Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare». Sempre Stendhal, spettatore quel 12 gennaio: «Finalmente il gran giorno: il San Carlo apre i battenti. Grande eccitazione, torrenti di folla, sala abbagliante. All’ingresso, scambi di pugni e spintoni. (…) Il posto in platea mi è costato 32 carlini (14 franchi) e 5 zecchini (…)». Con la gestione di Domenico Barbaja, dal luglio del 1809 nominato da Gioacchino Murat e sino al 1840 con Ferdinando I e i suoi successori, si era aperto un nuovo capitolo della storia del teatro. Il milanese Barbaja, visse a Napoli momenti fortunati che spesso contribuì a determinare, fronteggiando eventi sfavorevoli con calma ed efficienza, come quando si trovò a gestire una delle peggiori tragedie, il distruttivo incendio del 1816. Barbaja, nel tentativo di reperire quanti più fondi possibili per finanziare i lavori di ricostruzione del San Carlo, era riuscito a farsi nominare gestore della sala da gioco interna al Regio Ducal Teatro alla Scala e qui, grazie alle sue doti di giocatore e a una furbizia sconosciuta ai ricchi lombardi, si era procurato ingenti somme di denaro. Riporta Giampiero Tintori per anni direttore del Museo Teatrale alla Scala: «tenendo banco per il gioco d'azzardo alla Scala di Milano, per una sola stagione, riuscì a spennare così bene i nobili milanesi da ricostruire il Teatro di San Carlo e divenirne il signore assoluto». D’altronde, era stato lo stesso Barbaja che aveva lanciato l’uso sfrenato della roulette a Napoli, spostando i giochi fin dal 1809 verso un nuovo ridotto attiguo al vecchio teatro, non soggetto alle leggi che ne impedivano lo svolgimento durante gli spettacoli, ma sufficientemente vicino per essere frequentato dagli spettatori. Il contributo alla rinascita del Regio napoletano non fu l’unico dei suoi meriti, per il ricostruito San Carlo ebbe l’intuizione che nel nuovo secolo si dovessero allargare gli orizzonti e affacciarsi all’Ottocento con rinnovate proposte e suggestioni. La Scuola napoletana non aveva di certo esaurito la sua funzione, ma per il “principe degli impresari” occorreva qualcosa di nuovo e questo qualcosa s’incarnò nel nome di Gioachino Rossini che nella capitale partenopea rimase per otto anni, il cui arrivo seguì di pochi giorni il rientro trionfale a Napoli di re Ferdinando.I teatri nella capitale dei Borbone erano tra i più avanzati e la loro organizzazione complessa e articolata, attenti a quanto avveniva altrove e vigili sui nuovi talenti che si andavano affermando. La macchina musicale del San Carlo dopo la Restaurazione non conobbe soste e nella città si avviò uno dei periodi più fecondi. Per volere del sovrano vi si offriva un teatro regio glorioso, con l’ottima orchestra, coristi ben preparati, scuola di ballo e laboratori di scenografia, con compagnie di canto e solisti di prima grandezza, tra cui brillava il soprano Isabella Colbran, per anni compagna dell’impresario Barbaja, ma si disse amante di re Ferdinando e dopo avventurose vicende, moglie di Rossini. Di tenori, quali Andrea Nozzari, Manuel Garzia, Giovanni David. Con orgoglio scrisse da Firenze a un suo interlocutore il principe reale Leopoldo di Borbone-Due Sicilie: «L’altra sera fui col caro Papà al teatro della Pergola ove ci fu Mosè in Egitto bastantemente ben dato ma non così bene che in Napoli». Il pesarese dopo La gazzetta, unica opera comica scritta per Napoli e la sola data al di fuori dei Teatri Reali a eccezione di Otello, rappresentato al Fondo a causa dell’incendio, scrisse esclusivamente per il San Carlo componendo dal 1815 nove opere serie, iniziando da Elisabetta, regina d’Inghilterra. Fu nominato direttore artistico dei Regi Teatri dallo stesso Barbaja, di cui si diceva amico fraterno. Rossini s’innamorò, corrisposto, di Isabella Colbran, inoltre a incrinare il felice rapporto con la città intervennero i moti rivoluzionari del 1820/21 che ispirarono Rossini a comporre il Maometto II, celebrativodegli eventi contingenti; circostanze storiche e private, che costrinsero il compositore alla conclusione dell’esperienza partenopea, fuggendo con l’amata Colbran che sposerà segretamente vicino Bologna nel 1822. Ferdinando I dette incarico al Presidente della Deputazione dei Teatri di trasmettere a Barbaja il suo desiderio: «Sua Maestà si lusinga che (…) nonostante non sia restato nei Maestri compositori il signor Rossini, vorrà talvolta il signor Barbaja impiegare lo stesso nella composizione delle nuove musiche (…)». Nel 1819 un diciassettenne Vincenzo Bellini si trasferì a Napoli dalla nativa Catania, studente alReal Collegio di Musica di San Sebastiano. Assistette al San Carlo a una recita di Semiramide di Rossini che lo entusiasmò a tal punto da mettersi in polemica con i suoi maestri, di diversa scuola e pensiero. Tra gli usi del Conservatorio era quello di presentare al pubblico lo studente di composizione giunto al termine degli studi con un lavoro drammatico e fu così che al Teatrino di San Sebastiano il giovane Bellini vide rappresentata la sua prima opera, la semiseria Adelson e Salvini. Il successo lo portò a una scrittura per il San Carlo, era infatti consuetudine che i migliori studenti di composizione del Real Collegio potessero farsi conoscere in uno dei teatri reali. Bellini fu incaricato di presentare un’opera nuova non in uno, bensì in due atti, segno di distinzione e la prima di Bianca e Fernando fu fissata per il 12 gennaio del 1825, giorno di compleanno del re. Per riguardo all’illustre personaggio, il cui nome non poteva apparire su di una locandina, il titolo fu mutato in Bianca e Gernando ma, a causa della morte di Ferdinando I il 4 gennaio di quell’anno, la rappresentazione non ebbe luogo, rinviata al 30 maggio 1826, regnante Francesco I. Si racconta un episodio, la storia del teatro è fatta di narrazioni, che durante le prove Vincenzo Bellini, ancora studente, fu costretto ad abbandonare frettolosamente il teatro «per sostenere un esame al cospetto del Commissario del Regno», ma il direttore della preminente istituzione, Nicola Antonio Zingarelli, nel vedere Bellini: «Credo soverchio, se non inutile, esaminare questo giovinetto, che tra qualche mese dovrà essere esaminato da giudici assai più severi di noi: dal pubblico del San Carlo ove darà la sua opera che sta componendo: Bianca e Gernando». Tra il 1822 e il 1844 un altro compositore s’impose all’attenzione, il bergamasco Gaetano Donizetti che comporrà per Napoli ben trentuno titoli, forgiandovi la sua maturità di musicista e drammaturgo. Si iniziò con La zingara e La lettera anonima per il Nuovo e per il Fondo. Il successo gli aprì le porte del San Carlo, dove debuttò il 2 luglio del 1823 con l’opera seria Alfredo il Grande. I rapporti tra Donizetti con la realtà napoletana furono a volte burrascosi, quanto indicativi degli sviluppi del romanticismo nell’ambito di un clima culturale ancora intriso di gusto Neoclassico: «moda romantici sta tendente a contaminare la scena con le insane passioni». Vertice dell’arte compositiva di Donizetti al San Carlo nel 1835 Lucia di Lammermoor e nel ’37 Roberto Devereux. L’imprenditore Domenico Barbaja fu interessatonel 1826a ricavare nuovi ambienti da utilizzare per la sua attività di appaltatore di giochi d’azzardo, come aveva fatto in precedenza a Milano e per il vecchio San Carlo.A metà del secolo risalgono ulteriori interventi che interessano sia l’esterno che l’interno. Nel progetto di risistemazione dell’area di Palazzo Reale voluta da Ferdinando II, è abbattuto l’ultimo baluardo di Palazzo Vecchiopermettendodi edificare per il teatrouna facciata laterale su piazza San Ferdinando, affidata a Francesco Gavaudan e a Pietro Gesuè, che accostata a Palazzo Reale ne accentua la centralità. L’architetto “de' Reali Teatri” è sempre Antonio Niccoliniche nel 1844, coadiuvato dal figlio Fausto e da Francesco Maria Del Giudice,ne ristruttural’interno mutando l’aspetto della sala, per la quale si era deciso di cambiare colore, con le parti in argento brunito e oro da sostituire con altre interamente in oro. Scriveva lo stesso Niccolini nel 1844 che il re personalmente «(…) di tre parati rossi di carta vellutata di Francia (…) scelse il paramento del palco di mezzo (…) comandò che gli squarci delle porte de’ palchi (…)fossero tappezzate della stessa carta (...) comandò che il guanciale de’ parapetti de’ palchi fosse coverto in giro di velluto di lana colore scarlatto». L’argento non venne, però, scrostato, ma al di sopra vi fu applicato l’oro zecchino in foglia e parzialmente a mecca, una vernice dorata. Le tappezzerie dei palchi furono sostituite con delle nuove in rosso/rosso e oro che erano divenute le tinte tipiche dei teatri europei ottocenteschi. La trasformazione provocò una serie di problemi per l’ “architetto decoratore”, quali la scelta dei cromatismi per armonizzare il nuovo “Comodino”, quel siparietto che veniva usato più agevolmente nei cambi di atto. La realizzazione non piacque, percepita discordante con i toni della nuova sala, non fu mai adoperato e se ne perse traccia. Per il sipario vero e proprio fu prescelto il tema «Le virtù di Ferdinando II», nel concetto che nella nuova sala, alle qualità del padre Francesco e del nonno Ferdinando, si dovessero sostituire quelle del successore. La genesi fu tormentata, anche per il gran numero di pittori che vi lavorarono: Giuseppe, Giovanni e Antonio Cammarano, Raffaele Mattioli, Gennaro Maldarelli, Camillo Guerra, Gaspare Mugnai, Giuseppe Morrone, Giuseppe Castagna. Le polemiche si trascinarono a lungo e dopo neanche nove anni dalla collocazione, ritenuto inadatto, si decise di sostituirlo. Ilcompimento del nuovo sipario fu affidato a Giuseppe Mancinelli, napoletano, figura artistica di spicco della sua epoca, con tema“Il Parnaso”.Il 1854 fu un anno cruciale per Giuseppe Mancinelli, perché con le più ampie sospensioni dovette soddisfare la realizzazione della nuova tela del Real Teatro di San Carlo che ancor oggi ne rimane tra i simboli più significativi. La decorazione dei sipari non era ben accetta dagli artisti, considerata di poco valore e con difficoltà tecniche di notevole impegno. Il progetto, fondato sul recupero del classicismo italiano, fu subito accolto favorevolmente, sin dall’esposizione del bozzetto alla Mostra del Real Museo Borbonico. La complessa elaborazione rappresenta un simbolico Parnaso,il luogo che secondo la mitologia greca era consacrato al culto di Apollo e delle Muse, in cui sono riunite le più eminenti personalità della civiltà antica e moderna. Il pittorecon il suo lavoro, largo 17 e alto 12 metri, ruppe la tradizione di accentrare la sua pittura sulla glorificazione del monarca, non ponendone la figura al centro della composizione, anzi lasciandolo del tutto assente. La pubblica messa in opera del sipario avvenne il 10 ottobre 1854 per lo spettacolo inaugurale della stagione, nella descrizione si scrisse: «Il Mancinelli (…) elevò il lavoro alla sua propria altezza, accrescendo con indelebile ed egregio monumento la magnificenza del nostro maggior Teatro». Non fu commissionato un nuovo “comodino”,i tempi erano ormai maturi perchéa chiudere il palcoscenico, almeno tra un atto e l’altro, fosse un sipario di stoffa. Fino a metà Ottocento la programmazione nei teatri napoletani si distinse nella differenziazione di genere,al Reale San Carlo, con concessione al Real Teatro del Fondo, l’opera seria, mentre l’opera buffa o semiseria riservata a quelli di “secondo o terzo ordine”, il Teatro dei Fiorentini, il Nuovo e altri meno conosciuti quali il Teatro La Fenice dove tra il 1815 e il 1840 si cantava l’opera due volte al giorno.Si dovette attendere lo scorrere del secolo affinché si cambiasse questa distinzione, modifica che avrebbe portato a una concorrenza diretta tra le sale napoletane e l’impresa del San Carlo.Venero sempre escluse le rappresentazioni diurne: «Non era di decoro il permettere delle rappresentazioni di giorno in un Teatro Reale, per non assimilarlo a’ teatri di terz’ordine». I tempi mutavano velocemente, dal 1848 per attirare la ”classe novella” si era deciso una volta a settimana di darvi una rappresentazione diurna a prezzi economici. Dopo la caduta dei Borbone e l’Unità d’Italia, sopra l’arcoscenicofu posto lo stemma della nuova casa regnante dei Savoia. Nel 1872, su suggerimento di Giuseppe Verdi, il teatro fu corredato del golfo mistico, non senza resistenze. Il rapporto di Verdi con Il San Carlo fu caratterizzato da momenti alterni, vi presentò in prima nel 1845 la giovanile Alzira, tragedia lirica su libretto del napoletano Salvatore Cammarano. Non avendo riscosso il favore del pubblico, furono composti dei versi: «… lo sfrontato/ che a San Carlo l’Alzira ha portato (…) forse è ignoto all’ardito mortale/che a San Carlo si dà la Vestale/che a San Carlo vi scrive Pacini/che rapì coi sui canti Bellini?». Nel 1849 Luisa Miller, ma in quell’anno Verdi aveva partecipato alla Seconda Repubblica Romana presentando al Teatro Argentina La battaglia di Legnano, un messaggio politico non gradito dalla censura borbonica. Anche per il Regio napoletano Giuseppe Verdi e «l’assai stimato drammaturgo» Salvatore Cammarano proposero un'opera dal tema patriottico L'Assedio di Firenze, ma dovettero abbandonare il progetto sostituendolo con il libretto dal dramma Kabale und Liebe di Friedrich Schiller, che riscosse un successo “non più che discreto”. Successivamente, venne rifiutata la proposta de Il trovatore e così per altri lavori, sino Alla vendetta in domino (Gustavo III di Svezia) per la quale Verdi tornò a Napoli nel ’58. A seguito della bocciatura del testo di Antonio Somma la vicenda finì al Tribunale del Commercio e nulla si realizzò, tanto che il compositore partì arrabbiatissimo e presentò il suo Unballo in maschera al Teatro Apollo di Roma, apostrofando che la censura pontificia era più lungimirante di quella napoletana. Nel 1871, a seguito dei molti successi ottenuti con le sue opere, fu offerta a Verdi la direzione onoraria del Conservatorio, che venne rifiutata! Un vero e proprio “duello musicale” fu definito quello napoletano tra la musica di Saverio Mercadante e quella di Giuseppe Verdi. Mercadante era stimato nella città,tanto che in seguito gli sarà dedicata l’intitolazione di un teatro. Notato giovanissimo da Barbaja, era stato scritturato nella stagione 1818/19 per quattro balli e per la sua prima opera al San Carlo L’apoteosi di Ercole. A Napoli aveva presentato con successo molti dei suoi lavori, tra cui La vestale nel 1840, Medea nel ’51 eVirginia nel 1866, ma con la sua scomparsa laparabola artistica si era conclusa, lasciando brillare incontrastata la stella verdiana. Con l’affacciarsi del nuovo secolo, imprescindibile accoglierne le novità e al San Carlo vennero rappresentate le opere di Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano, Francesco Cilea, Franco Alfano. I melodrammi dei più celebri compositori tra Otto e Novecento, però, arrivavano a Napoli, sia pure in brevissimo tempo, pur sempre dopo essere stati presentati altrove, segno che il Massimo stava perdendo il suo ruolo di centralità nel panorama musicale. Le suggestioni wagneriane arrivarono a Napoli grazie alla figura di Giuseppe Martucci. Al San Carlo Richard Strauss assiste di persona alla sua Salomè. Siamo all’inizio del Novecento, un episodio più di altri, può farci capire con quale partecipazione si assistesse alle rappresentazioni e quanto quel pubblico, con le sue ritualità, fosse difficile da conquistare. La sera del 30 dicembre del 1901 il San Carlo, era: «un gran mare in tempesta». Ne L’elisir d’amore di Donizetti, cavallo di battaglia del tenore di grazia Fernando De Lucia prediletto dai frequentatori del teatro, debuttava un Enrico Caruso ventottenne, di fama consolidata a livello internazionale alla ricerca nella “sua” Napoli della consacrazione definitiva. Il tenore, però, non conosceva il San Carlo e trascurò gli usi e costumi di uno dei teatri più esigenti al mondo. Non sapeva, o fece finta di non sapere, che nella prima fila di poltrone a destra si annidava un terribile “tribunale” d'intenditori, sensibile agli omaggi e alle lusinghe, a un cenno di rispettoso saluto. Il tenore ignorò i “Sicofanti”, così era stato definito il drappello di nobili patito di lirica e questi gli giurarono vendetta e quella sera emisero la “condanna”: «(…) ma che fa Caruso, crede di cantare Otello? Dov’è finito l’idillio di Donizetti». Enrico Caruso, indispettito, giurò chesarebbe tornato sotto il Vesuviosoltanto per mangiare i vermicelli e mantenne la promessa. La città vorrà riappropriarsi della memoria dell’illustre concittadino e nel 2021, in occasione dei cento anni dalla scomparsa, il San Carlo collaborerà alle celebrazioni con un articolato programma di eventi e nel 2023 a centocinquanta anni dalla nascita, verrà dedicato a Enrico Caruso un museo nella Sala Dorica di Palazzo Reale. Dal 1915 al 1927 la gestione del Teatro San Carlo è affidata ad Augusto Laganà, un imprenditore di larghe vedute che ne diresse ottimamente le sorti sino alla costituzione del teatro in Ente Autonomo, dall’impresario si passava istituzionalmente al soprintendente (a Napoli è d’uso con la “p”). Per dieci anni s’inaugurarono le stagioni con un titolo wagneriano, accogliendo compositori emergenti quali Riccardo Zandonai e Ildebrando Pizzetti, i cui testi furono redatti da Gabriele D’Annunzio. All’ennesima ristrutturazione del 1937 risale il foyer realizzato nella zona orientale del giardino di Palazzo Reale, formato da colonne neoclassiche, collegato tramite uno scalone monumentale a doppia rampa su disegno di Michele Platania. A causa degli eventi della Seconda Guerra Mondiale il 4 agosto del 1943 la città fu pesantemente colpita dalle bombe che centrarono varie aree della Reggia borbonica, il Teatrino di Corte e il San Carlo che subì danni soprattutto al nuovo foyer, a molti dei palchi, all’area dei camerini e a parte del palcoscenico. Era il 7 novembre di quello stesso anno quando il tenente Peter Francis entrò al San Carlo e venne rapitodalla straordinaria bellezza della sala. Decise che il teatro dovesse tornare subito in funzione e provvide, sia pure in modo fittizio, a renderlo agibile. A pochi mesi, il 26 dicembre, nonostante le ferite inflitte dalla guerra, il San Carlo riaprivaalla lirica con La bohème, spettatori i tanti ufficiali alleati che ne avevano appoggiato il recupero. Fu riammessa anche parte della società partenopea, ma i civili ebbero accesso soltanto in galleria e in loggione. Per tre anni, dal 1943 al 1946, il teatro restò in mano alle truppe inglesi, anche utilizzato quale luogo di ritrovo. L’impresa era stata affidata a Pasquale Di Costanzo, affinché organizzasse spettacoli per i militari. La vera ripresa delle attività liriche è del 15 maggio 1944conAida per le truppe alleate, dopo la fedele ricostruzione del foyer e poche modifiche esterne alla sala per migliorarne gli accessi. Così proseguì l’attività del teatro sino al rilascio all’Amministrazione italiana nel 1946. Quello stesso anno è organizzata una fortunata tournée a Londra, sarà il primo teatro italiano nel dopoguerra a organizzare una trasferta estera. Ripristinato l’Ente Autonomo con la soprintendenza di Pasquale Di Costanzo, il San Carlo si avviava verso una sorprendente rinascita. Primo consulente artistico è nominato Francesco Siciliani e sin dalla prima stagione si comprese che le cose sarebbero andate per il meglio, che per il teatro era stata intrapresa la strada affinché potesse riaffermarsi sulla scena lirica internazionale con un riaffermato ruolo di primaria rilevanza. Trionfale nel 1947 il Mosè di Rossini che da cento anni non vi era rappresentato, titolo inaugurale di una stagione che contava ben ventidue titoli. Renata Tebaldi divenne prediletta del Massimo napoletano, vi aveva debuttato nel ’48 con La traviata. In seguito, il celebre soprano, dopo episodi poco felici alla Scala in competizione perenne con Maria Callas, fu invitata nuovamente per interpretare Violetta e per vincerne le rimostranze Di Costanzo si recò personalmente a Milano per accompagnarla a Napoli e lui stesso, per la prima volta, volle disegnare il bozzetto per il secondo atto, con un siparietto su cui erano appuntate delle vere camelie bianche. Erano previste sei recite, se ne dovettero effettuare ventiquattro. Sono molti i meriti del soprintendente Pasquale di Costanzo, colui chedopo averlo traghettato negli anni difficili delle truppe alleate, accompagnò il San Carlo nella grande ripresa del dopoguerra riconsegnandolo al suo pubblico, scritturando con infallibile intuito i migliori artisti del momento, con stagioni memorabili e riproponendo quel vasto repertorio che aveva visto quel palcoscenico protagonista indiscusso. Ne riaffermò l’autorità, nella programmazione dell'opera comica-buffa della Scuola napoletana e del più vasto repertorio, sviluppando l'attività ai Giardini del Palazzo Reale, alla Villa Floridiana all'Odèon, al Teatro della Reggia di Caserta, all'Arena Flegrea e al Teatro di Corte di Palazzo Reale. Ripresero le attività della scuola di ballo, avviata la collaborazione con il Teatro Mercadante e con le più significative istituzioni cittadine. La sua uscita di scena fu amara e la parabola si chiuse nel 1972/73, simbolicamente dopo una Turandot che segnava l’apicedi un pubblico intollerante e per problemi gestionali difficilmente gestibili. Al termine della rappresentazione dell’opera pucciniana il direttore artistico Guido Razzi fu «letteralmente sequestrato dai rappresentanti sindacali dell'orchestra e del coro». Se il suo operato doveva aver fine, osservo mestamente, avrebbero potuto farglielo capire con maggior rispetto. Nelle successive stagioni, sotto differenti direzioni, non mancarono serate tumultuose. Sul finire degli anni ‘60 e inizio ‘70, il famoso gruppo scultoreo di Niccolini “la Triade della Partenope” viene in parte smontato a causa di un fulmine che lo aveva danneggiato e per infiltrazioni d’acqua, infine rimosso per motivi cautelativi, per poi essere nuovamente posto sulla sommità dell’edificio l’11 giugno del 2007. Il sisma del 23 novembre 1980 causò alcuni danni i cui rimedi non richiesero la chiusura del teatro. Sotto l’arco del proscenio si decise la risistemazione dell’antico stemma dei Borbone e durante i lavori ci si rese conto che quello sabaudo vi era stato semplicemente sovrapposto. Dal 1982 con soprintendente Francesco Canessa, è la nomina a direttore artistico di Roberto De Simone, compositore, musicologo e regista. Con il suo operato contribuì a dare un’impronta allaprogrammazione dalla forte personalità, sia del San Carlo che del Teatro di Corte, nonché di luoghi simbolo di Napoli. Dell’estate del 1987 risale uno dei risanamenti del sipario del Mancinelli, eseguito da un gruppo di giovani restauratori, ripristinato nella sua funzione il 4 novembredi quello stesso annoin occasione della “Festa Teatrale per il giorno onomastico del Teatro di San Carlo nei duecentocinquanta anni della fondazione”.Frequenti nel periodo le chiusure per ristrutturazione. Nel luglio 1989 un articolo de “la Repubblica” recita: «Il San Carlo inagibile chiude e va in esilio», la Commissione provinciale di vigilanza aveva ordinato l’interruzione delle attività per l’esecuzione d'inderogabili lavori riguardanti la sicurezza. Dopo i primi duecentocinquanta anni celebrati nel 1987 il San Carlo: «vive male la sua seconda vita». Si doveva rifare l'impianto elettrico, cambiare le tappezzerie dei palchi, eliminare le intercapedini di legno, sostituire il sipario tagliafuoco: «si sa quando il San Carlo chiude, ma non quando potrà riaprire». Sotto commissario straordinario tra il 2008 e il 2009, sono effettuate ristrutturazioni in soli 330 giorni,impegnando trecento operai con attività ininterrotta. Nel corso dei lavori riappaiono l’azzurro borbonico e l’argento brunito con riporti in oro, tinte originali volute da Giovanni Antonio Medrano nel 1737 e riprodotte da Antonio Niccolini nella ricostruzione del 1817. Si ha la tentazione di riportare la sala alle tinte originali, ma prevale il proposito di lasciare tutto com’era sin dalla ristrutturazione del 1844, con la prevalenza di rosso e oro. Particolare attenzione affinché fossero ristabilite le condizioni ideali per l’acustica, con scelta di materiali appropriati e nelle tecniche di esecuzione. Interventi necessari per adeguare quel luogo traboccante di arte e culturaalla realtà del nuovo millennio,inserito dall’Unesco nell’elenco dei monumenti Patrimonio dell’Umanità. Riapertura il 27 Gennaio del 2010 con La clemenza di Tito di Mozart, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel 2011 in occasione dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, ancora interventi, alle Vittorie e ai panneggi del palco reale; è inaugurato il MEMUS, in cui sono esposte opere d’arte che narrano la storia del San Carlo. Precedute dalavori di protezione e stabilizzazione delle diverse aree di prospetto, nel 2019 si avviano le operazioni sulle facciate che presentavano non pochi segni di degrado. Recuperata quella verso il Maschio Angioino;la principale in stile neoclassico realizzata da Antonio Niccolini «tornata a risplendere», rinsaldata e restituita alla tinteggiatura marmorea originale con tonalità di grigio al posto dello sbiadito verdognolo; rimesso a nuovo sulla sommità della facciata il gruppo scultoreo di Partenope. Seguiranno i lavori sul prospetto laterale edificato su piazza San Ferdinando, ora piazza Trieste e Trento, operazione che completerà il rifacimento degli esterni del teatro. Nello sviluppo dei numerosi restauri che si susseguono, il più recente è dei primi mesi del 2023, con il consolidamento dell’edificio nel rispetto dei criteri del mutato rapporto con la storicità del luogo teatrale. Un ampio progetto del bene artistico con al lavoro oltre cento professionisti per la riqualificazione degli impianti e delle apparecchiature sceniche, il risanamento dell’arco di boccascena, dell’orologio di proscenio e di tutto ciò che necessita a un teatro che si pone al passo con i tempi. L’intervento più delicato è quello sul soffitto per la tela di AntonioCammarano, rinnovata nella sua bellezza. Nel corso dei lavori, con prepotenza, si riaffacciano l’azzurro e l’argento dei Borbone, oltre alla pittura ornamentale di alcuni gigli emblema della casata che regnò su Napoli dal Settecento e sino all’annessione al Regno d’Italia, coperti all’arrivo dei Savoia. Sotto il rosso e l’oro del palco reale emerge quel particolare tono ceruleo insieme all’argento, di cui si era persa memoria. Si lasceranno visibili alcune tracce delle tinte originali, affinché si possa leggere attraverso quei colorila stratificazione delle epoche a testimonianza dei suoi mutamenti. In special modo nel palco reale, ma anche all’ingresso alla platea, dove sono riportati diversi cromatismi, con un grigio al posto del giallo e il recupero delle foglie d’oro e d’argento.Sull’argomento, un accorato intervento del “Movimento Neoborbonico” con richiesta che i gigli possano restare visibili quale omaggio alla dinastia cui si deve il teatro, ma per questo si dovrà aspettare un successivo corso degli eventi, sempre vitale, per il Teatro di San Carlo di Napoli.
I TEATRI DI CORTE: PALAZZO REALE DI NAPOLI, REGGIA DI CASERTA, REGGIA DI PORTICI
Il primo Teatro di Corte al Palazzo Reale di Napoli, dopo allestimenti transitori, si potrebbe scherzosamente individuare in quello portatile del 1759 con cui il successore al trono Ferdinando IV di soli nove anni,figlio di Carlo di Borbone, si dilettava nel far recitare i suoi burattini con delle farse, protagonisti Pulcinella e tutta la sua brigata comica. Fu il severo e autorevole Bernardo Tanucci nel periodo di reggenza ad allontanare il giovane sovrano dalla sua predilezione per la farsa popolare, sentenziando: «il gusto italiano non è stato mai per le tragedie fin dai secoli remoti, onde è stato introdotto un terzo spettacolo, che è l’opera». A Palazzo lo spazio originariamente destinato agli spettacoli era la Sala Regia, dove era montato saltuariamente un palcoscenico. Dopo la partenza di Carlo per occupare il trono di Spagna, fu il successore Ferdinando a far erigere nel 1768 il Teatro di Corte, proseguendo così la politica del padre che considerò il Regio San Carlo quale luogo, oltre che di cultura, di rappresentanza e di diplomazia. Il disegno fu affidato all’architetto Ferdinando Fuga e l’occasione il suo matrimonio con Maria Carolina d’Asburgo-Lorena,con in scena una Serenata di Giovanni Battista Bassi su musiche di Giovanni Paisiello. Il risultato architettonico fu valutato eccellente: la sala si presenta in forma rettangolare, seguendo le linee di quella che era la Sala Regia, con balconata nella zona mediana e centralmente dominante il palco reale. Le decorazioni sono in stucco bianco e oro con lesene che, su tre lati, inquadrano delle nicchie con all'interno sculture in cartapesta del napoletano Angelo Viva,raffiguranti Minerva, Mercurio e Apollo con le nove Muse. il Teatro di Corte ospitò nel XVIII secolo soprattutto rappresentazioni di opere buffe, di Niccolò Piccinni e Giovanni Paisiello, commedie in musica di Domenico Cimarosa. Re Ferdinando, inizialmente disinteressato alla frequentazione di sale teatrali, col tempo si era andato sempre più incuriosendo enel 1776, a venticinque anni, dal tanto parlare di un melodramma buffo dato al Teatro Nuovo vi si era recato in incognito per ascoltarlo, per la prima volta frequentando un “teatro piccolo”. A questa visita ne seguirono altre, si recò ad assistere a spettacoli della compagnia dei Filodrammatici, pur non trascurando di promuovere spettacoli al Teatro Reale e frequentare, quando necessario, gli spazi nobiliari. Nel 1799 all’interno del Teatro di Corte fu proclamata la Repubblica Napoletana, in seguito la struttura fu poco utilizzata. Con l’Unità d’Italia il palazzo fufrequentato dai componenti di Casa Savoia, l’erede al trono era “Principe di Napoli” e nel teatrino lo stemma dei Borbone venne sostituito con quello della nuova dinastia, che per altroben poco fece per le attività di spettacolo. Nel 1943, durante il conflitto della Seconda Guerra Mondiale, una bomba arrecò gravi danni, tra cui il crollo della volta affrescata da Antonio Dominici raffigurante l’“Allegoria delle nozze di Poseidone e Anfitrite”, pittura che fu riprodottacon variazioni stilistiche da Francesco Galante. Nel periodo bellico la sala divenne luogo di svago per le soldatesche alleate, utilizzato come sala cinematografica e lasciato in stato di degrado sino all’inizio dei lavori del 1950. Rifatto il palcoscenico, l’intera struttura è riportata all’aspetto settecentesco, rimuovendo gli interventi effettuati nel secolo successivo all’edificazione. Momento di particolare splendore ritrovò il Teatro di Corte con la soprintendenza dell’allora Ente Lirico napoletano di Pasquale Di Costanzoe negli anni in cui Roberto De Simone fu direttore artistico del San Carlo, tra il 1981 e il 1987, offrendo spettacoli della tradizione e produzioni di opera buffa della Scuola napoletana. Successiva ristrutturazione dal 1999, con lavori terminati nel 2010. Oggi il palcoscenico ospita saltuariamente spettacoli della Fondazione Lirica.
Quello dei Borbone fu un periodo particolarmente florido, Re Carlo aveva dato impulso alla realizzazione di fastose opere architettoniche, nel 1738 dato avvio alla costruzionedella Reggia di Portici e nel 1752commissionato la residenza reale di Caserta. Impressionato dall’enorme eco che il Regio San Carlo aveva ottenuto in tutt’Europa quale immagine della dinastia, volle che il progettodella Reggia di Caserta, affidato a Luigi Vanvitelli coadiuvato dal figlio Carlo,comprendesse un teatro. Inizialmente il disegno dell’architetto prevedeva un grande spazio pubblico da realizzare nel parco, ma imposta la modifica, superando difficoltà tecniche e finanziarie, lo conseguì all’interno della Reggia con lavori che durarono dieci anni. Ideato in scala ridotta su modello del Regio San Carlo suscitò meraviglie e fu definito«un gioiello in miniatura». In stile tardo-barocco, la costruzione fu ritenuta addirittura superiore a quella della prima sala del San Carlo da cui trasse la tipologia a ferro di cavallo, ossia “all’italiana”, con quarantuno palchi disposti su cinque file e il reale sovrastante l’ingresso principale, sormontato dall’imponente corona dalla quale discendeva un ricco drappeggio di cartapesta che, nel colore azzurro con decorazione di gigli dorati si riferiva, egualmente al San Carlo, alla casata regnante. Inaugurazione nel Carnevale del 1769, alla presenza della giovane coppia reale Ferdinando e Maria Carolina. Il calendario era nutrito di eventi, rappresentazioni teatrali e musicali. La maggior parte delle opere date al San Carlo vi erano replicate. Il palcoscenico dal 1770 si poteva aprire nella parete di fondo, venendo a creare la suggestione per la corte di essere compresa nel parco, incanto determinato per la prima volta nell’atto conclusivo di Didone Abbandonata su libretto di Metastasio con musica di Domenico Sarro la cui prima si era svolta nel 1724 al Teatro San Bartolomeo. Tale persuasione è riportata in una descrizione d’inizio Ottocento: «È sito il teatro nel piano de' cortili, e corrispondete il suo palcoscenico alla facciata occidentale del palazzo, cosicché un ampio portone, il quale aprendosi sporge nel recinto de' reali giardini nello stesso livello, dà il comodo di un estesissimo sfondo in occasione di battaglie, e di altre spettacolose rappresentazioni, che richiedono uno spazio, ed una lontananza straordinaria (…)».
Non più esistente il teatro di cortenella residenza della Reggia di Portici. Una prima struttura venne realizzata nel 1741 dall’architetto Antonio Canevali, dove fu in seguito edificata la Cappella di Corte. Di questa si evidenzia a tutt’oggi la diversa funzione originaria, con il palcoscenico a tre quinte del teatro dove è il presbiterio e la sala al posto della navata a pianta ottagonale con un lato aperto ad arco in corrispondenza del presbiterio. Questo spazio era stato decorato dall’architetto e scenografo Giovanni Maria Galli da Bibiena, inaugurato la sera del 15 giugno 1746 com’era uso per i teatri di corte dalla compagnia del San Carlo, con Il Catone in Utica opera seria di Pietro Metastasio con musica appositamente composta“per Napoli” di Egidio Romualdo Duni. Il compenso che si volle riconoscere alla compagnia fu di ben trecento ducati. Del 1792 nella guida “Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli” è riportato che re Carlo nel 1749: «(…) ne cangiò subito l’uso, e disfatto il Teatro, volle in questo luogo (…) edificarvi la regal Cappella, che si vede». Del 4 novembre 1757 un dispaccio: «Per ordine del Re, essendo stato convertito in Cappella il R. Teatrino di Portici, tutte le decorazioni teatrali che lo corredavano, sono trasportate nei Magazzini del Teatro S. Carlo». Dismessa la primitiva struttura, il successore Ferdinando IV volle il nuovo teatro in uno degli spazi con affaccio sul cortile, tra la sala Cinese e la Cappella. A dirigere l’attività fu nominato il commediografo Giovan Battista Lorenzi,poeta e adattatore di drammi in musica, con dispaccio del 28 dicembre 1768: «(…) l’incarico delle invenzioni dei soggetti delle commedie all’impronto da farsi alla Sua Real Presenza a Napoli a Persano, a Caserta, a Portici ed in altri siti reali». Delle attività teatrali alla corte di Portici ci sono pervenute svariate cronache e su quel palcoscenico si avvicendarono artisti già noti nella capitale, con il susseguirsi di spettacoli di corte ai quali Lorenzi collaborò assiduamente. Nel 1769 sempre il Lorenzi fu incaricato d’improvvisare un testo in onore della visita a Portici del futuro imperatore Giuseppe II d’Austria, fratello di Maria Carolina sposa di Ferdinando di Borbone. L’illustre ospite non gradì lo spettacolo, tanto che la regina ne riferì alla madre imperatrice Maria Teresa, in una lettera che ci restituisce il quadro di come, a volte noiosamente, si svolgesse la vita di corte e quale fosse la funzione dei palcoscenici di quei teatrini: «La sera a Portici ci fu una commedia, di quelle che chiamano all’impronto. Si moriva dal caldo e mai in vita mia ho provato una tale noia, mai assistito ad una tale insulsaggine. Bisogna sapere che questa compagnia teatrale è composta di gente per lo più impiegata a corte, e che non ci sono assolutamente donne; sono uomini quelli che, camuffati, ne interpretano le parti. Il più atroce turpiloquio, le più insipide e sozze facezie (…) ci furono prodigate per quasi quattro ore, facendo morire dal ridere il Re e tutto l’uditorio (…)» Riferendosi al fratello la regina aggiunge: «Ne uscii veramente infuriato contro tutti coloro che invece di offrire al Re divertimenti onesti e intelligenti, gli propinano null’altro che sciocchezze e miserie di questo genere». La sera del 23 ottobre 1775 il re Ferdinando assistette nel Teatro di Corte della Reggia di Portici al Socrate immaginario, opera buffa più volte replicata al Teatro Nuovo con musica di Giovanni Paisiello. La proposta lo disgustò a tal punto che il giorno seguentefece inviare dal Consigliere Caruso Presidente della Giunta dei Teatri un messaggio impositivo: «Il Re, ascoltato l’opera del Teatro Nuovo, intitolata “Socrate immaginario”, l’ha trovata indiscreta; né da doversi rappresentare al pubblico. E mi ha imposto perciò dire alla V. S. e alla Giunta che non se ne permetta più la rappresentanza». A Portici, come nelle altre residenze reali, i maggiori avvenimenti coincidono con gli eventi legati alla famiglia regnante, come in occasione della nascita della primogenita: «Giovedì sera nel nuovo Teatro di Corte a Portici fu data dai Cadetti del battaglione del Re la prima recita della Commedia intitolata “Il Duca di Guastalla”. V’intervennero le Maestà Loro e tutte le cariche di Corte e Ministri Esteri, e vi furono invitate 30 Dame della Città. Lo spettacolo riuscì bellissimo e sarà replicato una o due volte la settimana». Dell’ultimo spettacolo in scena al Teatro della Reggia di Portici se ne ha notizia da “La Gazzetta Universale” del 25 ottobre 1789: «Le Maestà dei nostri Sovrani e la Real Famiglia si trovano tutti ora in Portici, ove la Villeggiatura seguita ad essere di molto concorso. In questa sera sul Teatro del Real Palazzo di Portici si rappresenta la celebre Burletta intitolata “Una Cosa rara”». Seguirà un progressivo abbandono del teatro, sino alla ristrutturazione della Reggia voluta da Gioacchino Murat e dalla moglie Carolina Bonaparte, che non prevedeva l’utilizzo della sala. Il palazzo, molti anni dopo, divenne sede dell’Istituto Superiore Agrario edel teatrino venne cancellata ogni traccia.
IL SAN CARLINO
Datare la nascita della sala che prenderà il nome di San Carlinorichiede un passo indietro nel tempo, per tornare alle forme originarie di quelli che saranno i teatri di Napoli. Se ne devono indagare ulteriormente le origini, analizzare le molteplici attività che si andavano costituendo, locali spesso arrangiati alla meno peggio e per brevi periodi, se non unicamente per particolari occasioni, nelle piazze, nei palchi e nei teatrini portatili dei burattini che presero il nome di guaratelle, da cui il termine “bagatella”. Teatrini per lo più provvisori come quel «Baraccone di legno nel casino fuori la porta dello Spirito Santo», di cui si è persa memoria. Di altri resta testimonianza, come per i comici della “Cantina” che si esibivano in una Sala sotto San Giacomo e a tutte quelle “Baracche” (piccoli palcoscenici in legno) che nel tempo nascevano e svanivano dalla sera alla mattina. Diritto di cronaca ha il teatro degli “istrioni”, da cui trassero origini successive realtà, tra cui quel teatro che fu denominato San Carlino: «dove si esibiva Pulcinella». Un «baraccone seu casotto grande di tavole, coverto sopra, dentro del quale erano situate tre file sei registri di palchetti». Questi ambienti storico/popolari erano presenti e anzi prosperarono anche in età avanzata, coevi o successivi al San Carlo. Il vero e proprio San Carlino che prese il nome, forse, dalla prossimità con il Regio, oppuredalla vivacità nell’attribuire vezzeggiativi, fu edificato nella sua struttura primariain legno nel 1740, accanto alla chiesa di San Giacomo presso il Municipio. Il primo impresario fu Gennaro Brancaccio e fu lui ad attribuirgli il nome di San Carlino. Lo descrisse quello stesso Samuel Sharp che abbiamo trovato in precedenza critico spettatore del San Carlo e del suo pubblico: «Il teatro è poco più grande di una cantina, anzi è proprio conosciuto sotto questo nome, poi che per abito così è chiamato: La cantina. Scendete dal livello della strada dieci scalini e siete in un fosso (…) ogni posto si paga un carlino. Corre attorno alla platea una galleria divisa in dieci o dodici palchi, ognuno capace di quattro persone, che vi possono star comodi (...) e si pagano otto carlini». Vi erano ospitati attori provenienti da tutta Italia e vi si rappresentavano per lo più drammi e talvolta lavori in musica, ma soprattutto testi dialettali e per questo sin dai primi anni di attività fu denominato «il teatro del popolo». Nel 1754 fu preso in affitto da tal Giuseppe Pepe, che lo ampliò e abbellì entrando in competizione con la Cantina sotto San Giacomo. Si disse del San Carlino, in competizione con la Cantina: «questo è teatro decoroso e nobile, l’altro luogo per la gente vile». Il giudizio sulle virtù del San Carlino fu presto smentito e alla fine del Carnevale del 1759 venne demolito per ordine del re a causa dei troppi scandali. Tommaso Tomeo e Elisabetta d’Orso chiesero a re Ferdinando di aprire un nuovo teatro per recitarvi "commedie premeditate" con l’impegno disottoporle preventivamente alla revisione delle autorità e il permesso fu accordato, a patto che sorgesse in luogo profano. Il secondo San Carlino è del 1770,edificato su dei fondi di proprietà della famiglia il cui capostipite Michele (Miguel) Tomeo dal 1734 era stato impresario di un altro teatro detto anch’esso “La Cantina”. Il Nuovo San Carlino fu eretto in muratura innanzi al palazzo che oggi è Caravita di Sirignano, nei pressi di largo del Castello, oggi piazza del Pebiscito, teatro che dal precedente ereditò quella tradizione legata al genere degli “istrioni” che tanto lo rese amato dal popolo napoletano e dai visitatori stranieri. Di passaggio per la città il compositore e storico della musica Charles Burney che il 2 novembre del 1770assistette a una recita e annotò nel diario: «Le soir, je suisallé à un petit thèâtre, nouvellementconstruit, qu' on venait d'ouvrir. Je l'ai trouvéjoli. On y donnait une comédie en prose. C'était un trait de l'histoire turque, qui fut mal débitée et mal jouée». Dal 1770 al 1884 fu soprannominato “la casa di Pulcinella” tanto era famoso per le così dette “pulcinellate”. Vi si rappresentavano lavori di genere comico e composizioni drammatico popolari, balletti, canzonette e dall’anno successivo alla fondazione, con assiduità, commedie per musica dei più celebri compositori della Scuola napoletana. Vi recitava con successo Vincenzo Cammarano detto Giancola, mitico Pulcinella e si dice che fosse l’unico tra i teatri napoletani dove si tollerasse la satira sul re e sulla famiglia reale e lo stesso Ferdinando di Borbone preferiva disertare il San Carlo per passarvi intere serate, travestendosi per non essere riconosciuto con abiti da “lazzarone”. Affascinò persino Goethe che del Giancola ebbe a dire: «(...) uno dei principali tratti di questo personaggio consisteva nel far mostra, talora, di dimenticar sulla scena interamente la sua parte. Tutto ciò che accade di notevole nella città si può risentirlo da lui la sera; ma le sue allusioni locali e il basso dialetto che adopera lo fanno inintelligibile allo straniero». Le parodie dovevano essere frequenti e negli ultimi anni se ne ricorda una de Le nozze di Figaro. Il San Carlino fu il primo teatro italiano in cui fu applicato un sistema di illuminazione a gas. Il teatro rimase in attività per centoquattordici anni, sino al 1884, quando fu abbattuto nel progetto di riqualificazione urbana postunitariadell’allora largo Castello. Negli ultimi anni di attività tra i suoi frequentatori il re Vittorio Emanuele II di Savoia nei suoi soggiorni a Napoli. Scrisse Salvatore Di Giacomo: «Spariva (…) un monumento napoletano, l'Eldorado della gaiezza spariva e la improvvisa e insospettata soppressione era lamentata qui come da per tutto, poi che erano state accessibili a tutti le forme comiche nostrane e nel teatrino di San Carlino era stata internazionale la risata». Oggi, dove era ubicato il San Carlino si trova la sede di una banca e si è persa ogni memoria dello storico e prediletto palcoscenico.
IL REAL TEATRO DEL FONDO - MERCADANTE
Il Real Teatro del Fondo, poi Mercadante, prese il nome da una società militare che fece progettare e realizzare la struttura tra il 1777 e il '78 grazie ai beni acquisiti dal “Fondo di separazione dei lucri”, patrimonio confiscato al disciolto Ordine dei Gesuiti in seguito alla loro espulsione da Napoli. La progettazione fu affidata al colonnello messinese Francesco Securo e il teatro fu inaugurato nel 1779 con la commedia per musica L'infedele fedele su testo di Giovambattista Lorenzi con musica di Domenico Cimarosa. La programmazione era dedicata al genere operistico, in cartellone sia l’opera buffa sia l’opera seria; vi è documenta negli anni di soggiorno a Napoli la presenza di Wolgang Amadeus Mozart. Nella sua attività fu partecipe ai cambiamenti politici e culturali instaurati dalla Repubblica Partenopea del 1799. Al Teatro del Fondo cambiarono il nome in Teatro Patriottico, fu riaperto conAristodemo di Vincenzo Monti alla presenza del generale francese Jean ÉtienneChampionnet, ma il dramma fu considerato antipatriottico e nonostante la sala avesse ospitato l’esecuzione di "Inni patriottici", tra cui in replica quello di Cimarosa, il teatro fu chiuso e murate le porte. Con la Restaurazione il Mercadante recuperò la sua funzione di teatro d’opera, ospitando i più grandi artisti dell’epoca. Nel periodo in cui fu diretto dall’impresario Domenico Barbaja, accolse musicisti quali Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, vantando numerose prime assolute. Il 4 dicembre 1816, a causa dell’incendio che aveva distrutto il Real San Carlo, vi debuttòOtello di Rossini, il 29 giugno del 1822 La lettera anonima di Gaetano Donizetti e tante altre. Dopo interventi di restauro, dal dicembre 1870 nell’emozione per la scomparsa diSaverio Mercadante, napoletano d’adozione, il teatro assunse l'attuale denominazione. Nel 1893 fu rifatta la facciata su disegno dell'ingegner Pietro Pulli. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento il palcoscenico fu protagonista della grande prosa con Adelaide Ristori, Fanny Sadowski, Ermete Zacconi, Eleonora Duse, Sarah Bernhardt ed anche artisti napoletani quali Antonio Petito, Eduardo Scarpetta, Roberto Bracco. Nel corso della sua attività fu sempre vigile per la presentazione delle novità del panorama culturale e nel 1914 ospitò una discussa "Serata Futurista" organizzata da Marinetti. In seguito protagonisti furono l’attrice Marta Abba con il drammaturgo Luigi Pirandello. Tra il 1920 ed il 1938 si svolsero lavori di restauro e nel 1936 il soffitto si arricchì del pregevole dipinto a tempera di Francesco Galante dal titolo Napoli marinara. Dopo successive opere di restauro dal 1959 al 1963, ottenne il riconoscimento di Teatro Stabile con direzione di Franco Enriquez. Dalla metà degli anni ‘80 vi furono allestite mostre e alcune rappresentazioni, tra cuiHistoire dusoldat di Igor' Fëdorovič Stravinskij con la regia di Roberto De Simone. Nel 1963 è chiuso per inagibilità. Dalla stagione 2003/2004 il Mercadante è gestito dal Teatro Stabile di Napoli.
IL SAN FERDINANDO
Il San Ferdinando è situato alle spalle del quartiere Sanità, nella piazza che sarà dedicata a Eduardo De Filippo. Si sostiene che la costruzione sarebbe stata richiesta da sua maestà re Ferdinando IV di Borbone che, come si ripeteva sovente a Napoli con soddisfazione del popolo, contrariamente al padre era amante della commedia e dell’opera buffa. Sempre secondo voci che si diffusero, il progetto prevedeva anche un palazzo che dovesse ospitare una delle sue figlie che non godeva buona salute, ma per i più per ospitare una delle sue “preferite”. La realtà fu che, forse per piaggeria, alla Deputazione dei teatri riunitasi il 4 agosto del 1790 fu proposto di dare alla nuova costruzione il nome del regnante, ma questa avrebbe negato il permesso affermando che: «non è stato costruito per il Real comando ed a spese Regie». Fu trovato il consueto compromesso, quello d’imporre il nome di un santo che riproponesse quello del sovrano: San Ferdinando. Il progetto originale reca la firma dell’architetto Camillo Lionti e fu realizzato nel 1791 al costo di circa tremilanovecento ducati. Si componeva di una platea ellittica e quattro ordini di palchi, cinque per ciascuna fila, ognuno arredato da tredici poltrone. Non poteva mancare quello reale e un altro per la famiglia del sovrano, che lo frequentarono con assiduità. La data d’apertura non trova concordi tutti gli storici: Benedetto Croce la fissa al 1790, mentre Vittorio Viviani dice che l’inaugurazione avvenne nella stagione invernale 1797/98. A Promuovere la costruzione del nuovo teatro fu, secondo Benedetto Croce, il notaio Gaetano Francone in società con Pasquale Pignata e Giuseppe Di Giovanni attori del San Carlino; Vittorio Viviani l'attribuisce al principe Ripa Francesconi di Columbrano, mentre Giovanni Artieri sostiene che fu costruito per volontà dei principi Ripa Franconi di Colobrano, Fiorino, Santobuono e Torchiarolo.Fatto sta che al Teatro San Ferdinando fu rappresentata, forse quale spettacolo inaugurale, Il falegname di Domenico Cimarosa, commedia per musica già data al Fiorentini. La sala fu eletta ben presto quale attraente luogo di svago della nobiltà. La vita del San Ferdinando, però, si mostrò ben presto impervia a causa di diverse e infelici amministrazioni che lo trasformarono in teatro per compagnie minori e di conseguenza la frequentazione perse di prestigio. Il 30 novembre del 1843 Marzio Gaetano Carafa dei principi di Colubrano lo vendette a Enrico del Prete che lo subaffittò ad Adamo Alberti, capocomico ed impresario del Teatro dei Fiorentini, che invano cercò di legarlo a commedie di teatro in lingua. Decadde rapidamente, nel 1848 divenendo luogo per filodrammatici, fin quando vi s'insediò, scritturato dagli impresari Bartolomeo e Golia, don Federico Stella, tra i più conosciuti attori e drammaturghi della scena teatrale napoletana. Figlio d'arte era nato in un camerino del Teatro Sebeto, noto come il più piccolo teatro di Napoli, poiché la madre era una ballerina di varietà, il padre Francesco detto "Ciccio" fu un grande interprete della maschera di Pulcinella. Nacque così la "Compagnia Città di Napoli", diretta da Federico Stella e Michele Bozzo, che per quasi quarant'anni vi rimase protagonista. In quel periodo Federico Stella fu un vero maestro per più generazioni di attori, la sua inventiva non conosceva limiti, la capacità di improvvisare e risolvere le situazioni impreviste era leggendaria. Negli ultimi decenni dell’Ottocento accolse i successi di Eduardo Scarpetta. Nel 1926, il San Ferdinando fu trasformato in cinematografo e cambiato il nome in Cinema Teatro Principe. Durante il Secondo Conflitto Mondiale, nel bombardamento del 3 settembre del 1943, il teatro fu completamente distrutto. Quel cumulo di macerie, in cui restava leggibile solo la sagoma del palcoscenico, fu acquistato nel 1948 da Eduardo De Filippo che v’investì tutti i suoi risparmi per quasi tre milioni di lire, indebitandosi per il rifacimentoattorno ai resti dell’originario palcoscenico. I lavori di abbattimento dei ruderi e quelli di ricostruzione durarono fino al 22 gennaio del 1954, quando divenne “il Teatro di Eduardo”, uno tra i più moderni della città. Il progetto, pur ripetendosi nel modello all’italiana, si offriva in una nuova veste con tutti quegli impianti che si convengono a un teatro moderno. Quattro scalinate portano alla sala, una platea molto accogliente, in leggero declivio verso il palcoscenico, con 17 palchetti elevatiin fila continua dal profilo a “U”, un semicerchio congiunto al palcoscenico, con analogia al prospetto dell’architetto e scenografo britannico Inigo Jones per lo storico Cockpit Theatre (Cockpit-in-Court) di Londra. Particolarità, i palchi invece dell'abituale numerazione portano i nomi di personaggi del teatro napoletano.La parte superiore è formata da un loggione disposto frontalmente alla scena. Nel 1964 nacque la "Teatrale Napoletana", società costituita con Paolo Grassi fondatore insieme con Giorgio Strehler del Piccolo di Milano. Nel 1966 terminò anche l'avventura della "Teatrale"e nel 1996 l’edificio fu donato da Luca De Filippo al Comune di Napoli, affinché fosse restaurato. Il 30 settembre del 2007, dopo lunghi lavori, è riaperto con la messa in scena de La tempesta di Shakespeare, nella traduzione in napoletano barocco realizzata nel 1984 da Eduardo De Filippo. Il San Ferdinando, insieme al Mercadante, è gestito dal Teatro Stabile di Napoli.
IL TEATRO BELLINI
«'O San Carlo p' 'a grandezza, 'o Bellini p' 'a bbellezza», un detto popolare che da solo testimonia il fascino della sala ottocentesca del teatro che sarà dedicato a Vincenzo Bellini. Nacque nel 1864 nei pressi dell’allora largo Mercatello,oggi piazza Dante;distrutto nel 1869 da un incendio. Il Nuovo Teatro fu fatto edificare nell’attuale via Conte di Ruvosu iniziativa del barone napoletano avvocato Nicola La Capra-Sabelli che ne affidò la progettazione all'architetto Carlo Sorgente, compreso nel vasto progetto postunitario della bonifica delle “Fosse del Grano”, un piano di ristrutturazione urbanistica che includeval’Accademia delle Belle Arti e la Galleria Principe. L'architetto concepì una sala a pianta circolare, con un solo ordine di palchetti e due ordini a loggia, capace di circa milleduecento spettatori, nel concetto diffuso nel periodo di usufruire di uno spazio capiente con fruizione popolare. Nei primi anni ospitò principalmente esibizioni circensi e saltuariamente spettacoli lirici. Il barone La Capra-Sabelli, eletto deputato del Regno d’Italia, lasciò la professione di avvocato per quella d’impresario del suo teatro e volle fosse adeguatamente ristrutturato per ospitare un repertorio lirico. L’esigenza di ampliare il teatro per renderlo conforme alla nuova funzione coinvolse nuovamente l'architetto Carlo Sorgente, che s’ispirò nella realizzazione all’Opéra-Comique di Parigi. Lasala fu progettata nella tradizionale pianta a ferro di cavallo con cinque ordini di palchi e una loggia, con il ritratto a olio di Bellini dipinto da Vincenzo Migliaro postoal centro dell'arcoscenico tra due figure alate. L'inaugurazione si tenne nell'autunno del 1878 con I Puritani di Vincenzo Bellini, cui il teatro era stato intitolato. Lo splendore in questa nuova veste lo volle porre quale contraltare del San Carlo, percepito dalla cittadinanza oltre che “molto bello”, realizzato con criteri estetici e architettonici “attuali”, con estesi spazi per l’accoglienza del pubblico e un ridotto anch’esso provvisto di ampio palcoscenico. La ristrutturazione sia della facciata che della sala, però, non trovò tutti concordi e sulgiornale napoletano politico-popolare della sera “Il Pungolo” del 7 febbraio 1768 si lesse una severa, quanto ingiusta critica, probabilmente diretta più a “colpire” il committente, che rivolta alla struttura in quanto tale. Riferendosi alle decorazioni si lesse:«oltre ad essere di un cattivo gusto che rasenta il ridicolo, sono anche superflue. Un teatro non è né un albergo, né un’osteria, per aver bisogno di queste insegne e di codeste frasche (…) l’interno del teatro colpisce all’occhio, abbagliandolo, con uno sfarzo (…) diciamo orgia addirittura di colori, di dorature, di riverberi, di luccichii di bianco, verde rosso e d’oro. Davanti a tutto quello splendore d’ornato molto ricco, un po’ pesante e un po’ anche barocco, fatto di putti, di mostri, di ghirlande, di coroni, di mascheroni (…) davanti a quell’addobbo stracarico e a quell’oro talmente profuso (…) voi capite (…) che il proprietario del teatro, l’egregio barone La Capra Sabello è un milionario». Il Bellini visse anni di grande splendore, l’attività proseguì con buona riuscita, sul palcoscenico approdò la commedia dialettale e fu sede stabile della Compagnia di Eduardo Scarpetta, a inizio Novecento tempio dell’operetta, della rivista e della canzone. Sino al primo dopoguerra mantenne un posto significativo nella vita culturale della società, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale, a causa del cambiamento delle abitudini sociali, subì l’inesorabile declino e dopo la chiusura venne utilizzato quale cinema, con i palchi trasformati in luogo d’incontro. Nel 1986 è acquisito da Tata Russo, che già aveva collaborato alla riapertura del Teatro delle Arti e del Teatro Diana. Dopo lavori e superate difficoltà strutturali ed economiche il Bellini è restituito all’originario splendore e riaperto nel 1988 con L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht, a cui seguirono fortunate stagioni teatrali. La gestione passa nel 2010 ai figli di Tata Russo e al presente il Bellini, con svariate iniziative e funzioni multiple, è per Napoli spazio primario di spettacolo e d’incontro.
IL TEATRO SANNAZARO– TRIANON - VIVIANI
A Napoli c’è una sala il cui palcoscenico è celebreper la sua particolare raffinatezza. Edificato sull’area dell’antico chiostro della chiesa di Sant’Orsola a Chiaja dei Padri spagnoli dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, il Sannazaro fu voluto e finanziato da don Giulio Mastrilli duca di Marigliano, su progetto di Fausto Niccolini, figlio del celebre Antonio e la direzione dei lavori affidata agli architetti Antonio e Gennaro France. I lavori iniziarono nel 1847 e fu inaugurato il 26 dicembre del 1874 con una Grand Soirée, in scena la commedia La petite marquise di Henri Meilhac e Ludovic Hallévi, in presenza dell’aristocrazia napoletana e da subito inserito nel ricco patrimonio teatrale della città, accanto al Mercadante, Fiorentini, Politeama, Nuovo e anche al Teatro delle Varietà, la Fenice, Rossini, Goldoni e Partenope. Nelle cronache dell’epoca fu definito un jolie bouquet, caratterizzato da decorazioni bianco e oro, con affreschi del Palliotti e decorazioni: «di un bello artistico semplice ed elegante in modo che l’occhio si riposa con compiacenza sopra un tutto armonico». Nel quotidiano napoletano “Roma” si legge: «(…) è quasi grande quanto il Fiorentini: ha quattro ordini di palchi, oltre otto baignoires, a livello della platea; la prima fila è in parte formata da un grande loggione con cinquantacinque poltrone; le altre file, oltre i due del proscenio, hanno quindici palchi comodi (…) uno dei più belli e graziosi teatri che conoscessimo». Il progetto è realizzato con platea in forma circolare troncata alla linea del palcoscenico, con quattro ordini di gallerie sovrapposte, ognuna divisa in quindici palchi. Il soffitto presenta una calotta ribassata con motivo ornamentale organizzato secondo una simmetria rotatoria. Il teatro accolse anche la tradizione francese del Cafè-Chantant e al Sannazaro fu di moda il cinema-varietà e vi trionfarono grandi nomi dello spettacolo quali Eleonora Duse e Tina Di Lorenzo; qui avvenne lo storico incontro tra Eduardo De Filippo e Luigi Pirandello. Dopo la crisi dovuta ai conflitti bellici e ridotto a sala cinematografica, fu riconsegnato alla funzione teatrale il 12 novembre del 1971 con la prima rappresentazione di Annella di Portacapuana di Gennaro D’Avino nella riduzione di Michele Prisco, in scena la Compagnia Stabile Napoletana. Lo stesso esempio, con platea circolare, fu successivamente preso quale modello per il Trianon, in avanti conosciuto quale “teatro del popolo Trianon-Viviani”. Inaugurato nel 1911, si compone di platea, 4 ordini di palchi e un loggione. La caratteristica programmazione era incentrata sulla tradizione della canzone napoletana. Alla fine degli anni ’40 la sala è trasformata in sala cinematografica, il Cinema Splendore. In seguito,sull’onda del Festival di Piedigrotta, viene utilizzato quale vetrina della musica partenopea. Nel 2002 la sala riprende il nome di Teatro Trianon, riconsegnato alla funzione originale, inaugurato con la commediaEden Teatro contestodi Raffaele Vivianiin cui il commediografo ripercorre la sua esperienza sul palcoscenico delcaffè concertoEden aperto a Napoli nel 1894. A Viviani dal 2006 sarà dedicato il teatro: Trianon-Viviani. Nel 2015 si diffonde la notizia della vendita a causa dei molti debiti accumulati e la struttura messa all’asta. Il pericolo era che lo spazio potesse trasformarsi in supermercato o sala bingo. Con il cambiamento al vertice della Regione Campania la mortificazione viene scongiurata e nel 2016, dopo adeguati lavori di ristrutturazione il teatro è nuovamente aperto al pubblico.
IL POLITEAMA GIACOSA
La sala di via Monte di Dio col nome Politeama Giacosa è posta sulla collina di Pizzofalcone, dove si dice sorgesse nel VII secolo a.C. l’antica città di Parthenope. Il teatro fu edificato dove era un giardino di aranci e limoni. Secondo una fonte non documentatasin dal 1811 vi sarebbe stata edificata una struttura con palcoscenico, ma il Politeama risale al 1870, composto da una platea e tre ordini di palchi con capienza di oltre novecento posti, dotato di ampio palcoscenico e ottima acustica. In seguito il teatro sarà dedicato al ricordo del drammaturgo e librettista Giuseppe Giacosa. Ristrutturato e rinnovato, il sipario si alzò su opere liriche, concerti, drammi popolari, formazioni di giro di valenti attori italiani e stranieri. Tra gli spettatori il principe Umberto di Savoia che andava ad applaudire Milly. Per molti anni vi si svolsero i tradizionali balli di Carnevale ed eventi di ogni genere, seguendo l'uso che in teatro si dovesse attuare ogni genere di spettacolo dal vivo. Bruciò nell'autunno del 1957, conclusasi la prima di uno spettacolo di rivista con Wanda Osiris e restò chiuso per molti anni. Il 23 dicembre del 1961 il Politeama Giacosa fu riaperto al pubblico con grande sfarzo di fiori e tappeti rossi. Il Teatro appariva nella sua nuova veste, dotato di tecniche all'avanguardia e con un palcoscenico dove si potevano ospitare spettacoli con strutture sceniche alla stregua dei tempi; una sala capiente di oltre mille posti. La pianta si presenta a gradini per dare migliore visibilità agli spettatori, splendente il lampadario al centro della cupola, costato dieci milioni di lire, per l’epoca un’enormità. Lo spettacolo inaugurale fu Rinaldo in Campo della ditta Garinei e Giovannini, in un accordo di collaborazione con il Teatro Sistina di Roma. Nonostante il successo delle molte proposte la gestione, indebitatasi a causa dell’onerosa ricostruzione dell’edificio, non riuscì a far fronte alle spese, fallendo. Riaprì il 18 marzo del 1964, sotto nuova conduzione. Produzioni del Teatro di San Carlo furono ospitate sul palcoscenico del Politeama; efficace nel 2018 la ripresa del Don Checco opera buffa in due atti di Nicola De Giosa su libretto di Almerindo Spadetta composta nel 1850 per il Teatro Nuovo, che fu tra le preferite da Ferdinando II delle Due Sicilie, andata in scena in prima in epoca moderna nel 2014 al Teatro di Corte di Palazzo Reale a Napoli. Ad inizio del 2023, a seguito di lavori di restauro del San Carlo, l’Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Massimo napoletano sono ospitati nella sala del Politeama, iniziando con un applauditoRigoletto in forma di concerto.
IL TEATRO AUGUSTEO
Anche per il Teatro Augusteo, edificato nel terzo ventennio del ‘900 nel quartiere San Ferdinando, bisogna tornare indietro nel tempo, a quello che era uno dei luoghi teatrali voluti dell’aristocrazia napoletana e più precisamente al seicentesco Palazzo Berio per cui il Vanvitelli intorno al 1770, in occasione del battesimo della Infanta Reale Carolina, vi aveva edificato un salone da ballo e un teatro di milleseicento posti. Nel progetto di ristrutturazione urbana dovuta alle nuove direttive di traffico per l’entrata in funzione della funicolare Centrale, il palazzo fu in parte demolito per lasciar posto alla nuova piazzetta intitolata al Duca d'Aosta, più nota come piazzetta Augusteo. Si presume all’incirca dove sorgeva la sala vanvitelliana fu edificato tra il 1926 e il 1929 il Teatro Augusteo, su progettodell’architetto Arnaldo Foschini e prima opera in cemento armato dell'ingegnere Pier Luigi Nervi, coadiuvato dall'ingegnere Gioacchino Luigi Mellucci. La sala si presenta a struttura circolare con diametro di 30 metri e conlucernario centrale della volta scorrevole. Si volle simmetrica, riecheggiante i teatri a palchi del ‘700, ma per l’epoca dotata di strutture all’avanguardia, con scala mobile, ascensori, impianto di aria condizionata. L’Augusteo fu aperto al pubblico nel novembre ’29, erano i tempi del cinema muto e furono proiettati i più celebri colossal, accompagnati da orchestra dal vivo. Negli anni a seguire la sala, dotata di eccellente acustica, si rivelò sempre maggiormente utilizzabile per esecuzioni musicali e il Teatro Augusteo ospitò Tito Schipa, Beniamino Gigli, Giovanni Martinelli e tutti i grandi della canzone napoletana. Divenuto ormai un luogo conosciuto e apprezzato, vi si esibì Joséphine Baker con il balletto del Casinò di Parigi. Si susseguirono riviste, spettacoli di prosa e accolte tra gli applausile esibizioni di Totò, cui si aggiunse Ernesto Murolo. Chiuso durante la Seconda Guerra Mondiale, nella piazzetta fu ospitato un ricovero. Nel ‘45 riaprì con la funzione di club della Croce Rossa. Negli anni ‘50 subì una ristrutturazione devastante, utilizzato come sala cinematografica, con stravolgimenti strutturali quali la copertura dei caratterizzanti marmi rossi con pittura plastificata e la muratura dei palchi. Nel 1980 l’Augusteo fu chiuso e qualche anno più tardi richiesto quale spazio per un supermercato. Lo sciagurato progetto non ebbe seguito e con la nuova gestione di Francesco (Pippo) Caccavale, dopo una trattativa durata circa tre anni con la Società proprietaria, s’intervenne drasticamente sulla sala richiamando l’attenzione del Ministero dei Beni Culturali. In un paio di anni, tra il 1990 e il ’92, furono rimosse le sovrastrutture e il Teatro Augusteo reso alla città, così come da progetto originale.
IL SALONE MARGHERITA
Nella lista dei teatri e sale d’opera di Napoli, nella lunga storia, se ne potrebbero contare ben settantotto, ma sono molti di più, di cui circa trentadue operanti nei recenti anni ’20, ma la cifra è di molto variabile. Oltre a quelli storici, ai tanti perduti nei secoli, spazi aperti e chiusi, Napoli vanta una ricchezza ineguagliabile ed è tra le città che conta più templi della recitazione e della musica, di cui alcuni che a ragione si possono definire “tra i più belli”. Nel Novecento, molti tra gli innumerevoli teatrini considerati di “terzo ordine” che ospitavano gruppi dialettali, operette, spettacoli di varietà, sceneggiate e i numerosi café-chantants, andarono distrutti durante la Seconda Guerra Mondiale, solo alcuni furono ricostruiti. Tra i più noti di fine Ottocento il Salone Margherita ideato quale cafè-chantant nel quartiere San Ferdinando per idea dei fratelli Marino sull’onda del successo del Moulin Rouge e delle Folies Bergère di Parigi. Grazie all’interessamento dell’allora sindaco, il principe Giuseppe Caracciolo di Santagapito e di Torella, fu inserito nel progetto di edificazionedella nuova Galleria Umberto I, in prossimità del Teatro San Carlo. Inaugurato il 15 novembre 1890, si mostrò con particolare apprezzamento del pubblico napoletano, assiduamente appassionato a ogni tipo di proposta; frequentatori furono principesse, contesse, uomini politici e giornalisti tra cui Matilde Serao. Nella Napoli a cavallo tra i due secoli fu assurto a simbolo della Belle époque. All’interno si parlava esclusivamente in francese, così nella lingua d’oltralpe erano composti i cartelloni pubblicitari e redatti i contratti degli artisti. Vi si esibirono i più celebri nomi, basti ricordare Lina Cavalieri, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani e dall’estero la Bella Otero e Cléo de Merode. Nel frattempo, a seguito del successo ottenuto, nacquero altri locali, quali il Circo del Varietà in via Chiaramonte e L'Eldorado a Santa Lucia. Al Margherita, a ogni lever de rideau l'applauso era puntualmente entusiastico, rivolto alla femme fatale, alla soubrette seducente oppure al tenore di garbo. Il salone, adibito a teatro, si avvale di due palchi e il palco mobile, accessibili da due corridoi affrescati in stile pompeiano. Il salone principale è circondato da nicchie e soppalchi arricchiti da stucchi e marmi policromi.
L’ARENA FLEGREA
Spazio all’aperto dalla cronaca complessa è l’Arena Flegrea, progettata per ben due volte a distanza di cinquant’anni dall’architetto Giulio De Luca. Commissionata nel 1937 con finalità di “teatro per le masse”, venne realizzata nel 1940, a causa dei danni provocati dal conflitto bellico inaugurata solo nel 1952 quale sede estiva del Teatro San Carlo con Aida di Giuseppe Verdi. Seguono anni di alterna fortuna, tra incendi e atti vandalici e nel 1989 se ne avvia la demolizione con la finalità di realizzare una nuova struttura in previsione dei Mondiali di calcio del 1990. Il cantiere rimane incompiuto e la “nuova” Arena è consegnata solo nel 2001, mantenendo della precedente la tipologia e le dimensioni, realizzata con aggiornate risorse esecutive. Sul palcoscenico, oltre a spettacoli lirici, celebri nomi del varietà internazionale quali Bob Dylan, B.B.King, Ben Harper, Mark Knopfler. Dal 2015 l’Arena Flegrea è rilevata dalla Società Come On Web, per una rinnovata funzione di spazio all’aperto, tra le maggiori in Europa, seconda in Italia e la principale del Meridione.
IL DOPOGUERRA: Il TEATRO DEI PICCOLi-TEATRO GALLERIA TOLEDO-RIVEVE IL TEATRO NEGLI ANTICHI PALAZZI- IL NUOVO TEATRO DI DONN’ANNA
A Napoli c’è una sala dedicata ai bambini, il Teatro dei Piccoli, realizzato in occasione dell’inaugurazione nel 1940 della Mostra d’Oltremare, realizzata dall’architetto e urbanista Luigi Piccinato. Subì danni irreparabili nel corso della Seconda Guerra Mondiale e negli anni ’50 se ne deve la ricostruzione all’iniziativa della scrittrice e giornalista Lea Maggiulli Bartorelli nota come Zietta Liù. Il progetto del nuovo teatro, pur con mezzi limitati, è realizzato in cemento armatodi 500 posti dagli architetti Delia Maione ed Elena Mendia. Gli stessi architetti ne curano la decorazione; alla sala si accede dal porticato con una gradinata e dal foyer. Agli inizi degli anni ’70 passa a conduzione dell’Università degli Studi di Napoli, ma la struttura per mancanza di manutenzione deperisce, sino a un incendio che ne compromette l’agibilità. Con la ristrutturazione della Mostra d’Oltremare del 2008, anche il Teatro dei Piccoli è reintegrato nella sede fieristica con intervento dell’architetto Marisa Zuccaro, conservando la struttura e parte del preesistente impianto decorativo.
Ancora, si potrebbero citare luoghi di spettacolo tutt’oggi operanti e altri adibiti a mutata funzione, tra questi del 1991 il Teatro Galleria Toledo, da fatiscente cinema a moderna sala da trecento posti, i cui lavori si svolsero dal 1987 al 1991. Il nome fu scelto come richiamo all'arte, la “Galleria” è il luogo d’incontro, “Toledo” l’omaggio al quartiere nel quale sorge; inoltre, nell’ubicazione di Toledo, è il senso della volontà di radicamento della cultura napoletana: commedia, musica, cinema.
Tra gli ultimi esempi di teatro di palazzo, ridotte quanto compiute sale di spettacolo che abbellivano le dimore dell’aristocrazia partenopea, l’antico teatrino della barocca Villa Patrizi, andato distrutto da un incendio tra il 26 e il 27 luglio del 1998, già gravemente danneggiato durante l’ultima guerra. Ricco di decorazioni e statue, gli spazi erano stati progettati dall’architetto Ferdinando Sanfelice con palcoscenico e ampio sipario nell’allegoria delle Muse; affreschi e archivi delle attività drammatiche e musicali parzialmente perduti. Abbandonato, dal 2011 si è proceduto al recupero del teatrino, con il risultato di riportare la sala ai caratteri originali, con un impegno terminato nel dicembre 2014.
Altro edificio che ospita un teatro è il Palazzo Spinelli di Laurino costruito nella seconda metà del Cinquecento e rifatto nel Settecentodall’architetto Ferdinando Fuga per volere del duca Trojano Spinelli. È il palazzo che ispirò Eduardo De Filippo per i suoi “fantasmi”. La sala è un suggestivo spazio circolare situato nel seminterrato, oggi utilizzata per gli spettacoli del Teatro Instabile fondato nel 1967, dal 2001 con sede nello storico edificio.
Ritorna dal passato uno dei luoghi simbolo della Napoli seicentesca. Scrisse Matilde Serrao, nell’impeto letterario mitizzante di fine Ottocento dello storico palcoscenico del Palazzo di Donn’Anna: «In fondo al grande salone era montato un teatrino per lo spettacolo. Tutta quelle eletta schiera d’invitati doveva assistere prima alla rappresentazione di una commedia, poi ad una danza moresca ed infine avrebbero avuto inizio le danze che si sarebbero protratte fino all’alba». Recuperato dopo tre secoli,il palazzo fu una vera e propria reggia “scavata nel tufo e nell’acqua” che lo scrittore Raffaele La Capria definì: «fatto di sughero». La sala del teatro, restaurata dalla Fondazione culturale Ezio De Felice, è oggi nuovamente identificabile dov’era il mitizzato palcoscenico affacciato sul mare. Nell’abbandono dei secoli il luogo aveva assunto l’inquietante fascino di antica rovina, quel che ne rimaneva fu acquistato dall’architetto Ezio De Felice nel 1958 e grazie all'impegnativa e laboriosa opera di recupero, riportato all’antico splendore barocco.
TEATRI IN CAMPANIA
Alcuni esempi per i teatri della regione Campania, le cui sale oggi operanti risalgono per lo più al periodo successivo l’annessione al Regno d’Italia, tanto era vincolante l’importanza di Napoli, capitale del vasto regno. Già nel Cinque/Seicento molte compagnie di attori, pur mantenendo Napoli quale punto di riferimento, si esibivano con successo in provincia. Vi si mostravanole esuberanti“canterine“, colpevoli di episodi scabrosi che avevano coinvolto esponenti della nobiltà napoletana ed“esiliate” nelle provincie.L’attenzione per la funzione del teatronel Regno delle Due Sicilie era rigorosamente legata alla centralità governativa e per l’edificazione di luoghi con funzione di spettacolo era imperativo avere il permesso del regnante. Inoltre, le ambizioni della Scuola napoletana che riuniva i maggiori talenti del Regno, guardava ben oltre il territorio, rivolte all’intera Europa.Tra le eccezioni è lo storico Teatro Comunale Campano di Capua edificato nel XVI secolo, nell’esigenza diavvalersi di un luogo decoroso per gli spettacoli, non essendo ritenuti idonei i luoghi all’interno della fortezza. La tradizione per il teatro dell’antica città campana risale ai tempi degli antichi romani, nel fondante territorio dove sorse l’antica Capua, considerata ai tempi il più importante centro della zona. L’“arcaica città” che dopo la distruzione dei saraceni venne riedificata nelle vicinanze e quel territorio prese il nome di Santa Maria Capua Vetere, dove si ammira l’Anfiteatro Capuanodella fine del I secolo d.C., il più grande dell’Impero romano dopo il Colosseo, conosciuto universalmente perché all’interno si svolgevano i combattimenti dei gladiatori e tra essi Spartacus. Nella ricostruita Capua, difesa da possenti fortificazioni, detta la “porta del Regno di Napoli verso settentrione”, nel 1761 il cinquecentesco Teatro Comunale venne ristrutturato dall’architetto Francesco Gaspari e ai successivi venti anni risalgono le facciate con la superba loggia architravata, ammirata per i suoi tratti di particolare monumentalità. Il degrado risale ai primi del Novecento, con gestione tanto precaria che, dopo uno dei frequenti commissariamenti prefettizi, il podestà dell’epoca Galdiero Ludovico Pastore decise che il fatiscente teatro dovesse essere venduto. Acquistato nel 1929 dalla famiglia Ricciardi, i componenti ne affidarono i lavori di ristrutturazione all’impresa del cavalier Raffaele Mudugno, al quale si deve il progettò di riqualificazione e ammodernamento, eseguiti nel rispetto dei canoni che avevano caratterizzato la storica struttura. Il Teatro, che prese il nome dalla famiglia che ne era proprietaria, fu inaugurato nel1932 con il dramma Sei personaggi in cerca di autore, presente Luigi Pirandello. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale gli alleati ne mutarono il nome in Garrison Theatre.Negli anni seguenti l’edificio, riappropriatosi del nome Teatro Ricciardi, subì diversi interventi, senza che ne fosse modificata la configurazione originaria. Dal 1990 è vincolato dalla Soprintendenza dei Beni Culturali quale edificio d’interesse storico e architettonico. È tutt’ora funzionante, offrendo una ricca programmazione.
Tra i teatri ottocenteschi edificati nel Regno delle Due Sicilie vi è quello di Caserta,territorio dove Carlo di Borbone-Napoli avevano voluto la monumentale reggia con all’interno il teatro di corte. Il progetto di una struttura pubblica è del 1816, da edificarsi dove precedentemente era ubicato il Regio Forno, descritto dal “tavolario” di Costantino Manni nel rapporto del 1749 in occasione della vendita al re del luogo destinato originalmente allo jus di panizzare. Il teatro fu realizzato nel cortile di uno degli edifici che vi si svilupparono, una collocazione inadatta per ospitare un teatro,soffocato dalle precedenti costruzioni. Nel progetto si volle, come d’uso all’epoca, che nella decorazioni si richiamasse la sala Teatro Reale di Napoli, che restava punto di riferimento ineludibile. I lavori veri e propri iniziarono nel 1825. Successivamente alla morte di Ferdinando di Borbone, l’erede Francesco I lo intitolò con regio decretoTeatro Regina Isabella, in omaggio alla seconda moglie e regina consorte Isabella di Borbone-Spagna, che ne aveva in partesovvenzionato la realizzazione. I lavori si protrassero per diversi anni e fu inauguratonel 1830,dopo quattordici anni dalla presentazione del progetto, antecedentemente di pochi mesi la scomparsa di re Francesco. Dopo l’annessione al Regno d’Italia il teatro divenne comunale e subì diversi interventi di restauro. Intorno al 1880 venne nuovamente rinnovato per iniziativa di Costantino Parravano e chiamato Teatro Nazionale, successivamente dedicato alla memoria di Domenico Cimarosa. Distrutto nel periodo fascista e ricostruito, fu inaugurato nel 1940 quale Cinema Teatro Comunale. Non sono anni felici, nella ristrutturazione del dopoguerra vengono cancellate le colonne della facciata con un nuovo prospetto di scarsa efficacia. Si attenderà il 1986 per il successivo intervento con lavori che durarono sei anni. Il Teatro Comunale di Caserta riprese l’attività nel 2002, ora sala moderna distribuita su due piani con una capienza di 500 posti. Del gennaio 2014 è l’intitolazione all’illustre concittadino, il compositore, direttore d’orchestra e ricercatore Costantino Parravano.
Ad inizio del XIX secolo Giacomo Mazas intendente del Principato Ultra, ovvero l’antica divisione amministrativa, volle edificare un teatro intitolato a Carlo Gesualdo principe di Venosa, prospiciente l'allora largo dei Tribunali, per celebrare la nomina di Avellino a capoluogo del Principato. L’edificio non svolse compiutamente la funzione di luogo simbolo della crescita sociale e culturale della città a cui era destinato e quale ricordo del vecchio teatro, dopo la vendita e demolizione del 1925, non resta che una lapide commemorativa. Per Avellino indilazionabile l’esigenza di poter contare su di una rappresentativa struttura teatrale e l’occasione fu colta in seguito al terremoto del novembre 1980, destinando allo scopo una porzione dei fondi stanziati per la ricostruzione e sviluppo della città. Il nuovo teatro fu progettato dagli architetti Carlo Aymonino e Gianmichele Aurigemma, realizzatodal 1992 al 2001 in pieno centro storico con imponenti lavori, di fronte al castello medievale, con affaccio sul Conservatorio "Domenico Cimarosa". Ideato con nozione avanguardista, l’intera struttura si adagia sul pendio della Collina della Terra nel parcocontiguo il teatro, che venne dotato di palcoscenico per spettacoli all’aperto. La facciata è di forma rettangolare, delineata dall’imponente portico misuratamente sinuoso, con effetto d’impatto scenografico sulla piazza antistante. La sala, preceduta da ampi spazi, si presenta con elegante pianta ovale, con ai due lati dodici palchi e altri cinque posteriormente, capace di milleduecento spettatori, con ampio golfo mistico. Il teatro è dotato di un’ottima acustica e si contraddistingueper l’ampio palcoscenico, largo trenta e profondo diciassette metri, dotato dei più moderni accorgimenti che lo rendono all’avanguardia per tecnica e funzionalità.Inaugurazione del nuovo Carlo Gesualdo il 21 dicembre 2002, alla Presenza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi con Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart.
Orgoglio di Benevento è il Teatro Comunale Vittorio Emanuele II, costruito fra il 1855 ed il 1862 ad opera del napoletano Pasquale Francesconi. La tradizione dello spettacolo del capoluogo sannita affonda le radici nel tempo, al II secolo d.C. quando in età augustea fu eretto il Teatro Romano, inaugurato intorno al 125-128 d.C. sotto l’imperatore Adriano, riportato alla luce con lavori di scavo dal 1923, è tra i più antichi edifici romani e meglio conservati. Per il teatro ottocentesco si dovrà ricordare che Benevento all’epoca della progettazione, inizio anni ’50 dell’Ottocento, era ancora enclave pontificia. Fu scelta quale sede del teatro l'antica via Magistrale e il progetto fu avviato a opera dell'architetto napoletano Pasquale Francesconi. Nel 1860 i garibaldini sottrassero Benevento al potere papale e la città fu annessa al nascente Regno d’Italia. In questo clima, al termine dei lavori nel 1862, il teatro della città ne divenne anchesimbolo culturale. Nello spirito postunitario il nuovo edificiofu dedicato al primo re d’Italia, Vittorio Emanuele, da notare che a tutt’oggi sul frontale dell’edificio si legge l’originaria intestazione, quella di VittorioEmmanuele, con due “m”.Sia nella facciata del portico a pilastri che all’interno si richiamano motivi realizzati nello stile del teatro classico all’italiana, evidenziando alcuni aspetti richiamanti l’architettura del Piermarini, conseguiti con garbato equilibrio, in un insieme tanto elegante quanto sobrio. La sala si presenta con quattro ordini di palchi, ampia platea e un capace palcoscenico. L'edificio s’impone quale importante elemento della dimensione cittadina, sito in un luogo particolare dello spazio urbano e dal 1881 le autorità comunali fecero abbattere moltissime abitazioni limitrofe per allargare lastretta e tortuosa via Magistrale, nel progetto di riqualificazione, ricavando il nuovo corso intitolato a Camillo Benso conte di Cavour. La storia del teatro s’intreccia con la Benevento ottocentesca e con il fascino dell’epoca di una città che cerca e ritrova una sua identità nel Mezzogiorno d’Italia. Vide calcare la scena da Ermete Novelli, che vi ottenne il suo ultimo trionfo, il cui busto è stato recentemente restaurato. La sala può ospitare fino a quattrocento spettatori, proponendo stagioni principalmente con repertorio dedicato alla prosa, alla danza e alla concertistica. Tra gli anni cinquanta e ottanta fu utilizzato come cinema, con il nome di Comunale. L’edificio presentava problemi di sicurezza e staticità, mancanze dovute all’usura e al decadimento. Da qui un primo intervento di riqualificazione. Chiuso alla fine del primo decennio del Duemila vengono effettuati importanti lavori di ristrutturazione e adeguamento a cura del Provveditorato Opere Pubbliche Interregionale di Campania, Molise, Puglia e Basilicata, riacquistando l'originaria funzione di teatro. La città di Benevento nel 2022 vanta di essersi riappropriata del Vittorio Emanuele, riaperto con una solenne cerimonia dopo il lungo silenzio, con l’Orchestra Sinfonica e il Coro del Conservatorio “Nicola Sala”.
Ad Aversa la prima struttura teatrale del 1889 si presentava in legno, situata nell'attuale piazza Principe Amedeo. Nel 1924, l'onorevole Giuseppe Romano fece edificare il nuovo teatro in tufo e cemento armato nell'attuale sede. La facciata presenta due ordini di finestre di cui il superiore ad arco moresco, con un bassorilievo raffiguranteDomenico Cimarosa, su modello del monumento di Francesco Jerace. L’interno edificato nella forma tradizionale a ferro di cavallo è in stile il liberty, sormontato da una cupola circolare affrescata da Arnaldo De Lisio con allegorie che inneggiano ai compositori aversani: Domenico Cimarosa e Niccolò Jommelli. Negli anni ’70 e nel decennio successivo la sala è sminuita a funzione cinematografica a luci rosse. Acquisito da Renato Virgilio, il teatro torna agli antichi splendori. È restaurata la facciata su progetto degli architetti Raffaele Pizzi e Davide Vargas. L’edificio, al quale è annesso il Salone Romano, torna così a testimoniare il legame tra l’illustre concittadino e la sua città. «Il progetto di rifacimento delle facciate del Teatro – hanno spiegato i due progettisti Pizzi e Vargas – è stato condotto seguendo due modalità distinte. La facciata principale è stata “restaurata” riprendendo i colori originari e ripristinando il bassorilievo di gesso che rappresenta la statua di Cimarosa (…) Sono state riprese le scritte, i decori, le porte». Del 2018 l’interessante iniziativa “Sulle Orme di Cimarosa“ progetto ideato, prodotto e realizzato dall’Istituto Comprensivo che porta il nome del musicista e l’Associazione Nostos Teatro. Un itinerario storico, artistico e musicale dedicato al celebre compositore, Il cui percorso didattico ha compreso numerose attività tra cui una visita teatralizzata nei luoghi della città legati a Domenico Cimarosa: il Chiostro normanno di Sant’Audeno, dove fu battezzato; la Chiesa della Trinità dei pellegrini, dove sono custoditi i certificati di battesimo; il Teatro e la casa dove trascorse i primi anni di vita.
Di rilievo l’attività in campo lirico del Giuseppe Verdi di Salerno, storico teatro cittadino. Dopo la chiusura nel 1845 del Teatro San Matteo si volle realizzare un nuovo luogo di spettacolo, ma non fu facile trovare un accordo su dove edificarlo. Le proposte dell'Intendente della Provincia in data 15 novembre 1843 furono due: il largo Santa Teresa e il largo Fuori Porta Nuova. Si ritenne idonea la seconda ipotesi, per cui fu elaborato un piano di lavoro che prevedeva il costo di quarantamila ducati, una cifra elevata che non trovando copertura costrinse il Decurionato a ripiegare su un progettomeno costoso, presentato il primo agosto del 1845 dall'architetto Ulisse Rizzi, ma l’approvazione da parte del re di Napoli per la realizzazione nell'area di Santa Teresa arrivò solo dieci anni più tardi. Nel consiglio comunale del 15 dicembre 1863, all'indomani della nascita del Regno d'Italia,grazie ai fondi del nuovo governol’allora sindaco Matteo Lucianine fece avviare la costruzione. Il precedente piano di lavoro di Petrilli-De Luca fu sostituito da una nuova idea progettuale dell'ingegnere capo del genio civile Antonino D'Amora e i lavori iniziarono il primo aprile del 1864, con direzione dello stesso D'Amora e dell'architetto Giuseppe Menichini, procedendo sia pure con difficoltà per i molti costi aggiuntivi. I locali, con decorazioni di Fortunato e Gaetano D'Agostino, furono consegnati il primo ottobre del 1869. Dopo circa due anni, il 15 aprile 1872, il teatro di stampo neoclassico fu inaugurato con Rigoletto di Giuseppe Verdi. All’edificio si accede attraverso tre porte che si aprono sul vestibolo, sopraelevato di circa tre metri sul livello stradale; la sala riprende in scala ridotta la pianta tipica a ferro di cavallo del San Carlo ed è costituito da un corpo di fabbrica lungo 65 e largo 36 metri. Il prospetto frontale suggerisce con espressione eclettica lo schema del Teatro alla Scala e del San Carlo. La curvadella platea si presenta a forma allungata poiché il D'Amora, per evitare «il cambiamento brusco nell'unione fra la parte circolare e le parti rettilinee» ritenne opportuno inserire «negli attacchi o passaggi un altro arco circolare di raggio maggiore». Curata la decorazione dei settantuno palchi divisi in quattro ordini e una galleria, con oro in foglie spalmato su una preparazione a bolo rosso e figure a rilievo. Sul primo ordine spiccano dei putti, sul secondo giganti neo-manieristi, in terzo figure femminili che intrecciando le mani delimitano un medaglione con le effigi di poeti e musicisti. Il dipinto del soffitto della sala è realizzato da Matteo Amendola, come affermò il critico teatrale George Banu: «un caso particolare, dove sopra una balaustra si appoggia Rossini, mentre intorno navigano le dee della musica». Le muse fanno da corona, slanciandosi in un’appariscenteevoluzione danzante nel blu di Prussia, svincolandosi armonicamente dai veli leggiadri, tanto che il dipinto fu criticato poiché “indecente” a un luogo pubblico. Al sipario storico lavorò per circa un anno Domenico Morelli su suggerimento di Pasquale Villari, raffigurante la cacciata dei saraceni, con rievocazionedell’episodio accaduto nell'agosto dell'anno 871. Come scrisse Primo Levi: «(…) resa con tutto l'impeto di un poema eroico, tenendo pur conto degli effetti della luce artificiale». D’eccellenza la dotazione scenotecnica. Un'area fu riservata a ospitare gli ambienti della Casina Sociale, fondata nel 1851 per accogliere l'alta borghesia salernitana. Nei primi anni il teatro non ebbe una programmazione continuata, tanto che Ottavio De Sica, zio di Vittorio, lo definì «lo schiavo di pietra», con riferimento alle catene che ne chiudevano costantemente il portico. Al contrario, godette sempre di una convinta partecipazione popolare. L'intitolazione a Giuseppe Verdi avvenne solo alla morte del compositore nel 1901. Il Teatro subì rilevanti danni per il terremoto del 1980, rimanendo inagibile per circa quattordici anni. La ristrutturazione è completata nel 1994 e il teatro nuovamente inauguratoil 22 gennaio 1997 in occasione del cinquantenario di "Salerno Capitale d'Italia" con Falstaff di Verdi, segnando l’avvio della prima stagione lirica del nuovo corso. Franco Zeffirelli a Salerno ebbe a dire della gestione del teatro: «Salerno è una piacevole scoperta (...) E poi c’è questo teatro, un esempio unico in Italia perché è un teatro libero dalle ingerenze dello Stato». Dal 2007 direttore artistico è nominato Daniel Oren, da allora il Verdi di Salerno si è affermato nel panorama lirico come teatro di eccellenza, con una programmazione selezionata e caratterizzata dalla presenza di artisti di fama internazionale, connotandosi quale tempio della cultura.
EPILOGO
Il cambio generazionale e il continuo fiorire di compositori, librettisti, cantanti e strumentisti, hanno permesso a Napoli di mantenere attraverso i secoli un livello qualitativo particolarmente elevato. Creatori che trovarono nella ribalta dei teatri storici della città partenopea,dai più celebratiai cosiddetti “minori” o “piccoli”, quell’esclusiva vitalità che vi resterà fondante.Più recentemente, si è avviato Il progetto “Napoli Città della Musica” che «punta a creare dei legami di reciprocità tra le istituzioni e gli attori del territorio partenopeo». Confidiamo in questo futuro nella devozione alla sirena Partenope da cui, nel racconto del soave canto e della musica qualisegni qualificanti della figura mitologica, nascerà la città capitale e centro di cultura, con impresso il culto delle Muse e delle loro arti, simbologia che ritroveremo quale elemento distintivo delle più significativedecorazioni dei teatri, un augurio per tanti secoli a venire, di creatività artistica unica al mondo.