I teatri nel Veneto
di
Vincenzo Grisostomi Travaglini
PREMESSA
I teatri nel Veneto
di
Vincenzo Grisostomi Travaglini
PREMESSA
Premessa
Anfiteatri, teatri, identità culturale del Veneto s’identificano con la storia stessa di una terra sontuosa di tradizione. Nel territorio, che sarà della potente Repubblica di Venezia, sorgono istallazioni per lo spettacolo sin dal periodo dell’antica Roma, i nuovi teatri dal XVI secolo. Nel Seicento a Venezia si apre il primo ambiente pubblico per l’opera in musica; strutture storiche e recenti a Verona, Vicenza, sale che segnano la vita civile quanto intellettuale non solo del luogo, bensì dell’intera Europa. Spazi che si scoprono al diletto e allo stesso tempo segnano l’ineguagliabile avanzamento nel campo della prosa, letteratura musicale, dell’opera o melodramma. Angusti o magnifici, di cui resta memoria, oppure costruzioni divorate dal tempo e dalle fiamme, altrimenti, come per La Fenice, che risorgono da ogni distruzione. Testimoni dell’antico Leone di San Marco, le attività teatrali in Veneto hanno sempre svolto un’importanza qualificante. L’aulica rigenerazione cinquecentesca del Classico, protagonista il sommo Andrea Palladio a cui si deve il più nobile, l’Olimpico, ancor oggi in attività: «Vicenza sola (…) può vantare di avere un Teatro degno della Grecia e di Roma, ed è questo l’Olimpico». Edifici della fiorente Repubblica, poi Serenissima, sono testimoni della conoscenza, fondante di stili ed evoluzione. La Scuola Veneziana, compositori, esecutori, architetti per erudite accademie che, dallo studio dell’antico, aprono l’orizzonte alla più attuale cognizione rappresentativa. A Verona Antonio Galli da Bibiena per il Filarmonico del 1729, voluto dall’omonima Accademia, volle realizzare un teatro maestoso, secondo l'imperante stile Barocco; distrutto da un incendio nel 1749, fatto ricostruire sotto l’impulso del letterato, storico ed erudito Scipione Maffei, nella pianta a campana con palchi allineati e degradanti e nel grandioso boccascena a colone giganti e statue bronzee, esprimendosi in continuità con gli antichi, pur volgendosi al rinnovamento. A Venezia protagonista del Neoclassicismo è Giannantonio Selva, artefice dell’originario Gran Teatro La Fenice. I primi modelli di sala nella capitale della Repubblica precedono di qualche anno la costruzione dell’Olimpico vicentino, ma si presentano rispetto al codificato in realizzazione del tutto originale. Indifferenti da ambizioni umanistiche sono i «due theatri bellissimi», eretti da famiglie patrizie, i Michiel e i Tron, con finalità speculativa di pubblica frequentazione. Ovvero, nasce l’impianto architettonico-economico di modello propriamente veneziano che, consolidato e sviluppato dal Sei-Settecento, diverrà esempio di un sistema tutt’ora vigente. Dall’iniziale accostamento d’indirizzo classico con gradoni di legno, si manifesterà un elemento di sostanziale novità, file sovrapposte di palchi d’affittare all’aristocrazia, ambìti ritrovi e segno di distinzione, da cui prenderà avvio il sistema di sala ”alla veneziana”, poi celebrata quale “all’italiana”. Edificato intorno al 1561 il Tron, ribattezzato come d’uso dalla parrocchia d’appartenenza di San Cassian, ospiterà nel 1637 la prima opera in musica in un teatro pubblico, la barocca “Andromeda” di Francesco Mannelli su libretto di Benedetto Ferrari. Da questo momento si svilupperà il concetto di spettacolo con repliche, non più recita esclusiva, ma produzione vera e propria all’interno di un articolato cartellone, con finalità di profitto. Il San Cassiano, demolito a inizio Ottocento, sarà presto restituito nello stesso luogo e come era, dopo un attento lavoro di ricerca e ricostruzione. Celebre la dinastia di scenografi ed architetti Mauri, in attività presso la Serenissima nell’arco di quasi due secoli con disegni «di meravigliosa architettura e di grande idea». A loro si deve l’innovazione della tecnica di palcoscenico, con progetti che, superata la “scena per angolo” dei Bibbiena, contribuirono all’imporsi della nuova forma neoclassica, con imponenti prospettive di colonne e di portici. Precursori, altresì, di quella romantica, di quinte arboree convergenti verso il quadro di sfondo. In questi luoghi venne consumato il confronto tra l’antico con cavea gradinata e i riformatori del moderno, ossia della sala con logge, che nella città lagunare troverà massima espressione e propagazione. Si presenta per lo più con pianta a ferro di cavallo, nella variazioni quali di schiacciata (à raquette) e diversi ordini di palchi, che i detrattori sminuiranno definendoli cellette. Trasformazione altrettanto progredita nell’ideazione di un proscenio che assumerà tutt’altra forma e funzione rispetto al passato, così da stabilire un inedito rapporto di demarcazione tra pubblico e palcoscenico, di riforma nell’espressione del cantante solista in personaggio e interprete, con associata funzione dell’orchestra, affermando l’archetipo d’opera moderna. In progressione l’ampliamento dei palchi e la modifica degli ordini superiori in gallerie e loggione, nello scorrere dell’L’età dei Lumi e del nascente Romanticismo, a favore di una fruizione ampliata. Questa progressione degli edifici, spesso tramite ristrutturazione, fu tutt’altro che indolore, come a Vicenza patria del classicismo palladiano, dove a due secoli dall’Olimpico si edificò il Nuovo, successivamente Eretenio, dall’Accademia omonima: «Sebbene quanto basta grandioso e magnifico sia questo nostro Teatro Eretenio, pure è teatro Moderno, cioè a dire da per tutto povertà, difetti ed abusi, proprietà, tutte, che caratterizzano tutti i Teatri de’ giorni nostri». Il panorama dei complessi teatrali è quanto mai vasto e l’architettura vi astrae in scuola di pensiero, la consuetudine si rinnova e si compie in forma esclusiva, punto di riferimento per i territori italiani e di tutta l’Europa. L’arte dello spettacolo e delle architetture ad esso dedicate non si disgiungono dai fattori storici che li accompagnano e spesso ne determinano l’aspetto. Ottocenteschi, fra i tanti in Veneto, il Grande di Brescia del 1810 fondato dall’Accademia degli Erranti, disegnato dal neoclassico Luigi Canonica, tra i significativi progressisti di progetti dell’epoca. Venne chiamato "Il Grande" in onore di Napoleone Bonaparte, con all’interno decorazioni allegoriche celebranti le vittorie del generale ed imperatore, distrutte nei rifacimenti di fine Ottocento. Il Comunale di Treviso, dal 2011 intitolato al celebre tenore Mario Del Monaco. Teatri antichi e moderni, un patrimonio martoriato nell’ultima guerra da devastanti bombardamenti. Non c’era città in Veneto e in Italia che non si vantasse del proprio, grande o piccolo che fosse, di celebrazione, ritrovo mondano e socializzante, occasione per assistere all’opera, al ballo, ai veglioni. Luoghi di cospirazione nell’avvicendarsi di dominazioni austriache e francesi, in primo piano nelle sollevazioni di popolo, espressione degli ideali risorgimentali. Come dimenticare la scena iniziale del film Senso di Visconti ambientata all’interno del Gran Teatro La Fenice, durante una recita de Il trovatore di Verdi, quando al finale de “Di quella pira” si scatena l’esclamazione di un loggione inneggiante all’Unità d’Italia, con grida e lancio di volantini tricolori.
VERONA
L’ARENA
Di antico splendore il Teatro Romano di Verona del I secolo a.C., il meglio conservato dell’Italia settentrionale, riscoperto a fine ‘800 è stato restituito nel Novecento dopo accurati lavori di recupero e restauro, dal 1948 ospita l’Estate Teatrale Veronese. Nella città degli Scaligeri, però, l’edificio di fama millenaria è l’Arena, rinomata nel mondo intero grazie a quello che dal ‘900 sarà il Festival Lirico, la cui edificazione è di datazione incerta, presumibilmente tra secondo e terzo decennio del I secolo a.C. in età imperiale, tra Augusto e Tiberio. Tralasciando il primo arco di tempoin Arena con battaglie tra gladiatori e ludi, esibizioni che tanta ammirazione suscitarono in Plinio il giovane, si percorre la storia sino a Teodorico il Grande a cui si deve l’organizzazione di spettacoli in epoca medievale. Per ragioni di morale pubblica dal 1276 uno statuto stabilì che le prostitute dovessero abitare esclusivamente all’interno del monumento, mentre nel 1310 venne emanato l’ordine di tenerla chiusa, vietandone l’accesso. Nonostante la proibizione, nel 1382 vi si tennero venticinque giorni di festeggiamenti solenni in occasione delle nozze di Antonio della Scala signore di Verona, con Samaritana da Polentanobile ravennate.Nel 1450, durante il governo veneto, i nuovi statuti:«Poiché nell'Arena si commettono molti delitti e la stessa Arena è un edificio memorabile, che porta onore alla città, per cui è da tenere pulito, si stabilisce che detta Arena debba essere tenuta chiusa (…) e se qualcuno romperà le porte o il muro sarà punito con un'ammenda di 25 lire, e con la stessa pena sia punito chiunque distrugga qualcuno dei gradini, o muova o faccia cadere qualche pietra per asportarla (…)». Dalla fine del XVI secolo in Arena si tennero le tanto celebrate Giostre, la prima ad essere documentata è quella del 26 febbraio 1590, di cui sono ricche le cronache con ampie descrizioni. La varietà di spettacoli diurni richiamava un vasto pubblico e nel 1716, in onore del principe elettore di Baviera, vi si tenne l’ultima Giostra. Da quell’anno si registrano per lo più contratti a compagnie di comici e ballerini. La prima recita vera e propria, tenutasi su di un modesto palcoscenico rimuovibile di travi in legno, è datata nel luglio del 1713 con la tragedia Merope del marchese Scipione Maffei. Negli anni successivi tra gli ospiti illustri, giunto da Venezia per assistere ad Arlecchino muto per paura con il comico Gaetano Casali, è spettatore il commediografo Carlo Goldoni, il quale nelle Memorie descrive minuziosamente l’ambiente dell’interno dell’Arena, con i nobili seduti in platea ed il popolo sulle gradinate. Nello scorrere del tempo nel 1801, a fronte dei problemi di conservazione, il Governo Provvisorio della città incarica l’Accademia di Agricoltura Commercio e Arti di trovare un rimedio. Il conte Benedetto del Bene in qualità di Segretario prendel’iniziativa di bandire un concorso: «Qual cemento, per sicura e ben applicata esperienza, resistendo all’umido e al secco, potrà perfettamente impedire la filtrazione delle piogge tra le pietre, i muri, e le volte dell’Anfiteatro (…)».il 15 giugno 1805 Napoleone Bonaparte visita l’anfiteatro, dopomeno di un mese dall’incoronazione di Re d’Italia. L’occasione, uno spettacolo di “caccia dei tori” una tauromachia inconsueta che poneva di fronte tori e mastini, che l’imperatore dimostrò di gradire particolarmente. Dal diario dell’oste Valentino Alberti: «Dopo pranzo il nostro augustissimo imperator e stato in nella Rena per esser invitato per veder una bellissima cassa di un famoso toro, e molti cani (…)». Su personale disposizione dell’imperatore vennero erogati fondi per il restauro dell’edificio con interventi strutturali, sia per assicurarne la statica, sia per renderne l’interno più facilmente fruibile, facendo ricostruire le parti mancanti delle gradinate e stuccarle, ristrutturare le scalinate e molti altri fondamentali lavori che ne hanno permesso la conservazione e determinato a tutt’oggi la disponibilità. A seguito della battaglia di Verona dell’ottobre 1805 tra l’Armata d’Italia e l’Esercito Imperiale, i prigionieri austriaci furono imprigionati all’interno dell’Arena e ne distrussero il palco eretto per le commedie, utilizzandone il legname per riscaldarsi. Napoleone, particolarmente interessato alla città quale nodo nevralgico nella sua politica d’espansione, nel 1807 volle verificare i lavori di consolidamento del monumento e nell’occasione assistere a una successiva “caccia dei tori”. L’Arena segue la storia e l’evoluzione dei tempi, nel 1815, in seguito allacaduta di Napoleone e a un mese della chiusura del Congresso di Vienna, fu l’Arciduca d’Austria ad assiste all’interno dell’anfiteatro alla “caccia dei tori”, con al termine una generosa distribuzione di granoturco alla popolazione indigente. Ancora festività l’anno successivo per il ritorno di Verona all’Impero d’Austria con l’istituzione del Regno del Lombardo-Veneto. Nel 1822 in piena Restaurazione la città ospita il Consiglio dei Grandi alla presenza delle teste coronate di tutta Europa. Per l’occasione il principe Klemens von Metternich commissiona a Giachino Rossini due cantate Il vero omaggio da eseguirsi al Teatro Filarmonico e per l’Anfiteatro il 24 novembre La Santa Alleanza spettacolo lirico-coreografico con testo di Gaetano Rossi. In Arena sarà lo stesso Rossini a seguirne lo svolgimento. Si narra che il compositore fosse per tutto il tempo della rappresentazione terrorizzato non tanto per l’esito dell’esecuzione, bensì dalla precaria staticità di un’imponente statua di marmo facente parte della scenografia raffigurante la Concordia, astrazione conclusiva nella simbologia dell’evento, preceduta dal Fato, da Minerva circondata dalle raffigurazioni allegoriche delle Arti, Abbondanza e Felicità, da Cerere, Nettuno e Marte. Si susseguirono negli anni episodi legati a svariate forme d’intrattenimento con coinvolgimento della nobiltà e del popolo: oltre alla commedia, gare di velocipedi e d’equitazione, esercizi ginnici e acrobatici; con presenze illustri, dall’imperatore Ferdinando I, all’imperatore Francesco Giuseppe. La musica di Rossini vi tornò a risuonare il 31 luglio del 1842 con lo Stabat Mater, dieci giorni dopo la prima esecuzione veronese al Filarmonico. Una prima stagione lirica all’interno dell’anfiteatro è riconducibile al 1856, con prosecuzione di appuntamenti occasionali. Siamo al 1866, alla festa per l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, alla quale assistette il re Vittorio Emanuele II. Il destino artistico dell’Arena si delineerà per grandiosità ricettiva nel giugno/luglio del 1900, quando per venti sere consecutive venne rappresentato su di un palcoscenico appositamente costruito, largo 32 metri e illuminato con lampade ad arco, il “ballo storico spettacoloso” Pietro Micca. Si scrisse: «Uno spettacolo così grandioso a Verona non lo vedremo forse mai più». Il cronista verrà smentito da lì a pochi anni. Per oltre il decennio successivo, però, a parte un ulteriore episodio legato alla danza, vi si presenteranno per lo più spettacoli circensi e sino al 1913, con l’avvio di quello che diverràil celebre Festival Lirico Areniano, giunto nel 2023 alla centesima edizione. In quell’anno si celebrava il centenario dalla nascita di Giuseppe Verdi e si tramanda che il tenore veronese Giovanni Zenatello seduto a un bar di piazza Bra con Maria Gay, Tullio Serafin e l’impresario Ottone Rovato, rivolgendo lo sguardo al monumento esclamasse: «Ecco il grande teatro che tanto vado cercando basterebbe che soltanto avesse una buona acustica, perché non andiamo a provare le voci?». Il sopralluogo ebbe esito affermativo e confermò in Zenatello la determinazione di avviare nella sua città un imponente teatro all’aperto per la lirica. Così nacque il progetto di Aida in Arena, finanziato dallo stesso tenore e dall’impresario Rovato. A dirigere la storica rappresentazione il maestro Serafin, che s’imporrà quale direttore delle più celebri produzioni veronesi nell’arco di quasi mezzo secolo. Il 10 agosto del 1913 con la rappresentazione di Aida si ebbe l’evidenza che l’Arena avrebbe potuto trasformarsi in una sede ideale per gli spettacoli lirici all’aperto. La cronaca riporta che quella sera il cielo era sereno, dopo una prova generale incerta a causa del maltempo. Presenti nomi della politica e dell’aristocrazia, compositori le cui opere verranno rappresentate negli anni successivi per la nascente iniziativa: Boito, Cilea, Giordano, Mascagni, Montemezzi, Puccini, Pizzetti, Zandonai; tra gli scrittori e drammaturgi Maksim Gorkj e Franz Kafka. Il ruolo del titolo è impersonato da Ester Mazzoleni definita la più grande Aida del tempo, Radamès è lo stesso Zenatello e Amneris Maria Gay Zenatello. Il maestro Ferruccio Cusinati si occupa sia del coro,sia delle masse; per le scenografie Ettore Fagiuoli che Gabriele D’Annunzio definirà «architetto delle pietre vive». Quel giorno a Verona confluirono masse dalle più svariate provenienze, a riprova non solo della sensibilità artistica degli organizzatori, ma anche della loro intuizione in un proficuo investimento. Tutto esaurito e i bagarini fanno affari d’oro, il commercio della città ne trae beneficio, la sera della recita un salumiere vendette mille fiaschi di vino e settecentocinquanta chili di prosciutto. Il consenso fu clamoroso; tale è il coinvolgimento di tutta la popolazione che alla maternità due neonati verranno battezzati con i nomi di Radamès e di Aida. L’anno successivo, il 2 agosto, in coincidenza con una recita di Carmen con Maria Gay-Zenatello la dichiarazione di guerra tra Russia e Francia alla Germania. L’iniziativa areniana subisce un brusco arresto e la musica vi tornerà a risuonare il 31 luglio del 1919 con Il figliol prodigo di Amilcare Ponchielli. Nel 1920, appuntamento areniano con Mefistofele di Boito, in locandina Bianca Scacciati, Nazzareno De Angelis e Aureliano Pertile; nello stesso cartellone si ripete il successo inaugurale con Aida. Le stagioni procedono con favore, tra titoli noti e proposte d’oltralpe, artisti tra i più celebri. Nel 1921 Sansone e Dalila di Camille Saint-Saëns, compositore ottantacinquenne che con rammarico dovette rinunciare all’invito ad essere presente. Nel ‘22 è la volta del Lohengrin di Richard Wagner con protagonista Aureliano Pertile e ancora tanti altri eventi. Nel 1927 in cartellone è La Vestale di Gaspare Spontini, Aida, le sinfonie n.5 e n.9 di Ludwig van Beethoven, direttore dell’intera stagione il maestro Antonio Guarnieri a capo dell’orchestra e coro dell’Arena. Nell’occasione di una recita de La Vestale Arturo Toscanini, presente alla rappresentazione, dovette ritrattare quanto affermato nel 1913, ovvero che «all’aperto si gioca solo a bocce». Nel 1938 a due anni dall’esecuzione postuma alla Scala, trionfa in Arena la Turandot di Giacomo Puccini. Nel 1936 nasce l’Ente Lirico, con primo sovrintendente Pino Donati. Alla viglia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1938 e ‘39 i titoli in cartellone sono quattro. Un lungo silenzio a causa del conflitto e solamente nel ‘46 riprendono le attività e lo saranno nel nome di Giuseppe Verdi con Aida e La traviata. Arduo sarebbe citare tutti gli eventi che si susseguirono nelle felici programmazioni. Il direttore artistico Giovanni Zenatello, dopo un’audizione, scritturò nel 1947 una giovane cantante greca dal nome d’arte di Maria Callas(alcuni giornali scriveranno Kallas), con debutto in Arenail 2 agostone La Gioconda di Ponchielli. A Verona il soprano conoscerà l’imprenditore Giovanni Battista Meneghini con cui si unirà in matrimonio nel 1949 nella sagrestia di San Fermo Minore di Brà. La Callas tornerà a cantare in Arena l’anno successivo quale principessa Turandot; nella stessa stagione Renata Tebaldi in Margherita nel Faust di Charles Gounod.Tale è la risonanza delle estati veronesi che nel 1950 i titoli passeranno a cinque. Nel 1953 si celebrava il quarantesimo anniversario del Festival con il ritorno di Aida, sul podio ancora Serafin, protagoniste nel ruolo del titolo Maria Meneghini Callas in avvicendamento con Anita Cerquetti, Radamès Mario Del Monaco, Ramfis Giulio Neri, Amonasro Aldo Protti. Nel 1955 di scena è Otello con Mario Del Monaco con regia congiunta di Roberto Rossellini e Carlo Maestrini. Il 12 agosto del 1962 le fiamme distruggono la scenografia de Un ballo in maschera intaccando le pietre della cavea, costringendo per la prima e ultima volta la chiusura anticipata della stagione, direttore Gianandrea Gavazzeni. Il 1963 sancisce le nozze d’oro tra Aida e l’Arena col ritorno, quale ospite d’onore, del soprano Ester Mazzoleni, la celestiale Aida del 1913. Nel 1969 venne definito “memorabile” il Don Carlo con Montserrat Caballé, Placido Domingo e Piero Cappuccilli. L’affermazione di un cantante si misura oramai dalla sfida areniana; mitico il brusio dalle gradinate che nel 1978 per Il trovatore precedette il “Di quella pira” di Luciano Pavarotti, esecuzione conclusasi tra applausi entusiastici, direttore Gianandrea Gavazzeni, oltre al tenore, Katia Ricciarelli, Piero Cappuccilli, Fiorenza Cossotto. Tra i molti titoli, quello dell’Aida verdiana resta per la sua spettacolarità il favorito dal grande pubblico. Diversi saranno i registi, scenografi e costumisti che si confronteranno in produzioni di successo, discusse e discutibili. Nel 1982 si decise la rievocazione dell’Aida del ’13, affidandone la ripresa a Vittorio Rossi e la regia a Gianfranco De Bosio, riferendosi ai bozzetti originali di Ettore Fagiuoli. Tra i diversi allestimenti dell’opera verdiana, quella firmata da Franco Zeffirelli, il cui nome è legato nel 1995 a una spettacolare Carmen diretta da Daniel Oren, ancor oggi in cartellone. Molti altri sono i titoli e i nomi illustri. Dalla cronaca alla storia il passo è breve.
TEATRO FILARMONICO
Nell’identità culturale veronese dal XV secolo fondamentale è il progresso delle accademie, tra le principalil’Incatenata e la Filarmonica che andranno a convergere nel 1543 nell’Accademia Filarmonica a cui si aggiungerà nel 1546 quella denominata Alla Vittoria. Nella rinnovata identità culturale, il sodalizio di eminenti personalità in campo umanistico e scientifico contribuirà allo sviluppo intellettivo della città, imponendosi con autorevolezza nella vastità deiDomini di terra della Repubblica di Venezia del Sei-Settecento. Le attività spaziano nelle diverse discipline di pensiero e con particolare impegno nella musica e nel canto. Celebre il ridotto musicale istituito dal conte Mario Bevilacqua; gli accademici richiamano a Verona i più celebri maestri, promuovendo concerti e splendide feste. Si forma una biblioteca con testi letterari, scientifici, partiture e una pregevole collezione di strumenti musicali. All’inizio del Settecento l’Accademia andava perdendo notorietà, quando il marchese Scipione Maffei si adoperò affinché si edificasse un teatro di tale distinzione da porsi ad emblema dell’istituzione, restituendola a ruolo centrale della vita culturale. A Verona all’epoca erano presenti diverse sale di svariata capienza, destinate a ospitare spettacoli della Commedia dell’Arte e melodrammi, principalmente nelle stagioni di Carnevale e d’Autunno, spazi «poco signorili» a detta dell’accademico Scipione Maffei che auspicava per Verona un teatro degno del Secolo dei lumi. Una finalità onerosa che trovò ostilità nei soci, ma alfine approvata con l’appoggio del Senato Veneto. Fu così deciso di costruire un nuovo teatro lirico a emblema di stabilità. Si scelse all’uso veneziano la struttura “all'italiana”, con vasta platea e ordini di palchi sovrapposti. Per la progettazione i dirigenti dell’Accademia Filarmonica chiamarono il bolognese Francesco Galli da Bibiena (Bibbiena) «l’universale architetto dei teatri», il quale ideò un suntuoso edificio dalle forme barocche con palchi gradualmente “salienti e scendenti”con perfetta fusione tra sala, boccascena e scene, accorgimento d’avanguardiache trovò l’immediato assenzo dei committenti. I lavori ebbero inizio nel 1716, affidandone la costruzione all’ingegnere veronese Lodovico Perini e proseguirono per tredici anni, con il risultato di un edificio dalla straordinaria bellezza, con legni laccati di pregiata manifattura. Da tutta Europa erano giuntiincisori e pittori per realizzare un edificio fra i più moderni ed innovativi. Stupefacente si presentava l’allestimento, di cui si sarebbe persa memoria se non fosse per i progetti originali custoditi dalla famiglia reale inglese nel castello di Windsor. Attesissima l’inaugurazione la sera del 6 gennaio 1732 con la prima assoluta del dramma pastorale La fida ninfa, su libretto dello stesso Scipione Maffei, con musica di Antonio Vivaldi. Da subito le attività del Filarmonico si posero quale punto di riferimento artistico e mondano, nonché ottimo investimento per i ricchi proventi dalle attività. Le fiamme lo distrussero la notte tra il 20 e il 21 gennaio 1749 al termine di uno spettacolo, sprigionate da una torcia dimenticata accesa nel palco del marchese Spolverini. A Venezia non mancarono sull’accaduto sonetti insolenti, ponendo l’accento sulla particolare attitudine di quell’aristocrazia a frequentare le logge organizzando rinfreschi, gioco d’azzardo e intrattenimenti amorosi, una morale rivolta ai veronesi che poco si giustificavaa paragone degli usi e costumi della frequentazione dei teatri della Serenissima capitale. Il teatro venne riedificato, ancora su stimolo del marchese Maffei, dall’architetto emiliano Giannantonio Paglia, già collaboratore del Bibiena che, pur rifacendosi al progetto originale, introdusse alcune varianti, tra cui l’organizzazione dei palchi e l’adeguamento del proscenio alle mutate necessità di spettacolo. Serata inaugurale nella stagione di Carnevale del 1754 con il Lucio Vero di Apostolo Zeno musicato dal portoghese David Perez, opera che non ottenne il consenso del pubblico e successivamente dimenticata. Le attività del Filarmonico negli anni seguenti destarono ampio interesse; nel 1765 la rappresentazione di Antigone con testo di Metastasio e musiche di Giuseppe Sarti riscosse unanimi consensi con vasta eco oltre i confini della Repubblica. Le attività dell’Accademia nella seconda metà del Settecento prevalsero con autorevolezza in campo letterario e scientifico, nondimeno la partecipazione alla vita musicale era di tale rilevanza da essere avvertita in ambito europeo. A tal proposito la presenza veronese del giovane Mozart tra il 1770 e il 1772, insignito del titolo di Maestro di Cappella onorario, dopo che gli accademici ne avevano stimato il talento in un concerto tenutosi nella Gran Sala del Teatro: «Questa Città non può non annunziare il valore portentoso, che in età di non ancor 13 anni, ha nella musica il giovanetto Tedesco Sig. Amadeo Wolfango Motzzart (così). (…) Esso giovane nello scorso Venerdì 5 dell'andante, in una sala della Nobile Accademia Filarmonica, in faccia alla pubblica Rappresentanza ed a copiosissimo concorso di Nobiltà dell'uno, e dell'altro sesso, ha date tali prove di sua perizia nell'arte predetta, che ha fatto stordire» (Gazzetta di Mantova, 12 gennaio 1770). Pochi anni prima la Gran Sala era stata dotata di un piccolo teatro in legno progettato da Girolamo Dal Pozzo per consentire a giovani appartenenti dell’aristocrazia cittadina a dilettarsi nel rappresentare tragedie scritte dagli accademici, tra le più note nel 1764 è una recita delMedo di Filippo Rosa Morando, nell’opportunità di poter eseguire tra gli atti composizioni di Maximilian Joseph III Principe Elettore Granduca di Baviera, mecenate di Wolfgang Amadeus Mozart.La vivacità ed interesse per l’ampliamento dell’offerta dei Filarmonicivenne consolidata e favorita con la costituzione dell’orchestra stabile: l’Orchestra dell’Accademia. Nel 1797 con la soppressione napoleonica della Repubblica di Venezia le attività dell’Accademia mutarono progressivamente, trovandosi nell’onere di affrontare difficoltà economiche e organizzative. Nel 1811, a seguito delle riforme e soppressioni istitutive dell’allora Regno d’Italia, i Filarmonici dovettero convertirsi in società di palchettisti, la “Società Filarmonica”, producendosi quasi esclusivamente nella gestione delle attività di spettacolo e gestione dell’orchestra stabile. Nel Teatro ci si rese partecipi, attraverso iniziative e dibattiti, ai fatti che caratterizzavano la società e i costumi del momento, contrassegnate dalla dominazione francese e sin dopo la Restaurazione, con il ritorno del governo austriaco. Nel 1822 in occasione del Congresso delle Nazioni, Verona ospiterà il raduno dei vincitori che, dopo la sconfitta di Napoleone, ridisegnò la mappa dell’Europa. In onore dei partecipanti si eseguì al Filarmonico una cantata composta da Gioachino Rossini. Sul palcoscenico, negli anni successivi, si avvicendarono i più celebri cantanti, i più famosi attori, presenti personalità della vita culturale e politica. Vi furono rappresentati lavori dei più svariati compositori italiani e stranieri, tra i più conosciuti ai molti dimenticati, di successo con esito di risonanza d’oltralpe, con vivace dibattito non privo di contrastanti valutazioni. La città di Verona verrà gravemente ferita dal bombardamento angloamericano del 23 febbraio 1945 e il Teatro Filarmonico distrutto. «Un teatro che vien creduto pochi aver che il pareggino, per quanto spetta alla perfezione della struttura; come niuno l'eguaglia nella nobiltà degli annessi» scrisse Scipione Maffei. Alui era stata dedicata la Gran Sala facente parte dell’edificio teatrale e utilizzata per concerti e svariate attività culturali, unico ambiente risparmiato sia dalle fiamme dell’incendio del 1749, sia dai bombardamenti. Architettura originale insieme al pronao di un piano di lavoro risalente al 1604/1608 per la sede dell’Accademia, anteriore al disegno del Bibiena. Il teatro è dotato di più ingressi, ma di severo incantonel riordino dell’area museale del 1982 si erge il monumentale pronao con colonne a capitello ionicodi solenne classicità, d’accesso al Teatro Filarmonico tramite la Sala Maffeiana, traversando il cortile settecentesco dove fu fondato il Museo Lapidario, anch’esso per volere dell’erudito socio dell’Accademia. Il Concorso Nazionale per la ricostruzione del Filarmonico venne bandito il 20 maggio 1947. Quasi dieci anni dopo, superando difficoltà finanziarie ed amministrative, si scelse di affidare la ricostruzione al veronese Vittorio Filippini che, con il suo progetto, si era adeguato alla domanda di rapportarsi al fondante contenuto stilistico del Bibiena, nell’intento di riprodurne le fattezze d’originale splendore, pur tenendo conto delle più moderne esigenze. I lavori ebbero inizio nel 1961 ed il teatro venne restituito alla città dopo circa un decennio, ma limitatamente per ospitare concerti. Pur mantenendone le fattezze, ne venne ampliata la capienza, con ai lati tre ordini di palchi e due gallerie, con acustica che non trovò unanimi consensi. L’’interno venne riportato a riflessi emulatori baroccheggianti e con riorganizzazione dei palchi. Dominanti gli emblemi d’appartenenza, ai lati i quattro medaglioni raffiguranti lo stemma degli Scaligeri, la Croce delle terre veronesi, la Sirena dell’Accademia Filarmonica e il Leone di San Marco. Per uno spettacolo operistico si dovrà attendere il 1975 con Falstaff o sia Le tre burle, dramma giocoso di Antonio Salieri su libretto di Carlo Prospero Defranceschi. Il Teatro, di proprietà dell’Accademia, è dato in uso al Comune che lo ha accorpato nell’Ente Lirico, dal 1998 Fondazione Arena di Verona, con gestione unica della stagione invernale alFilarmonico e quella estiva con spettacoli in Arena.
TEATRO RISTORI
Tra i luoghi di spettacolo ottocenteschi a Verona il Ristori e il Nuovo. Inaugurato nel 1837 è quel teatro che dal 1856 assumerà il nome di Adelaide Ristori, attrice tra le più conosciute dell’Ottocento, celebrata dai contemporanei per il suo patriottismo risorgimentale che da questa ribalta aveva ottenuto esaltanti riconoscimenti. In cartellone spettacoli di ogni genere, dall’opera, alla prosa, marionette e avanspettacolo, prima sede a Verona a ospitare una proiezione cinematografica. Palcoscenico del tutto singolare dotato di piattaforme mobili, definito “spazio poliedrico”. Chiuso nel 1983, verrà acquistato nel 2001 dalla Fondazione Cariverona e riaperto nel 2012. Complessi e accurati i restauri che ne hanno conservato la forma ottocentesca, preservandone l’originale facciata. Nella programmazione il Ristori si contraddistingue per offerte di concerti, spettacoli di danza e lirica. Offre una tipologia di eventi molteplici, manifestazioni culturali e convegni.
TEATRO NUOVO
Il Nuovo è realizzato su disegno di Enrico Storari, in austero stile neoclassico. La facciata principale si presenta con colonnato in pietra bianca e grigia. La sala è “all'italiana” dotata di due ordini di palchi con variazione architettonica in prossimità del proscenio, con colonne in stile ionico. Prendendo spunto dal Filarmonico, la tinteggiatura si definisce in tonalità chiare con decorazioni dorate ed immancabile è l’orologio posto in alto al boccascena. Venne inaugurato il 12 settembre 1846 con Attila di Giuseppe Verdiper la prima volta rappresentato a Verona. In scena in quegli anni appassionati di fermenti patriottici, spettacoli di tendenza particolarmente graditi da un pubblico borghese, che lo favoriva quale luogo d’incontro e discussione. Sin dalla serata inaugurale il moderno spazio teatrale si distinse per l’appoggio ai movimenti indipendentisti. In occasione della serata d’apertura il veronese Vittorio Merighi aveva composto un sonetto patriottico, mascherato da ode per la prima donna Rita Basso Borio, che terminava con: « (…) ad Austria morte, e Italia a vita appella». La stagione proseguirà sempre nel nome di Verdi con Ernani e Il bravo di Mercadante. Le scelte temerarie di politica irredentista, movimento a favore dell’unità territoriale italiana, determinarono l’intervento censorio del governo austriaco. Siamo al 1848 e il 18 marzo per assistere a un dramma è presente il viceré del Regno Lombardo-Veneto, quando giunge la notizia dell’insurrezione; lo spettacolo è interrotto da una folla festante confluita in teatro, inneggiante all’Italia e a Pio IX. Il Nuovo fu chiuso sino al ’49 dalle autorità militari e nuovamente interdetto nel 1858. Il 2 gennaio 1862 grande serata per la riapertura con Il trovatore di Verdi. Una prima rielaborazione della struttura risale al 1909, a causa d’interventi resi necessari da motivi di sicurezza; vennero acquisiti nuovi spazi. Dopo cinque anni, dal 1914, il teatro è nuovamente pronto per ospitare stagioni operistiche ad iniziare da Tosca di Giacomo Puccini. L’attività non venne interrotta nei periodi bellici, ma al termine della Seconda Guerra Mondiale il teatro dovette chiudere a causa delle condizioni precarie. Tra il 1946 e il 1949 il Nuovo, anche in relazione all’inutilizzabilità del Filarmonico, si apprestava a riproporsi quale apprezzato palcoscenico della città e autorevole luogo teatrale del Veneto.Finalizzato a spettacoli di prosa, convegni e incontri culturali, dal 2015 è sede del Teatro Stabile di Verona; dal 2015 riconosciuto Teatro Stabile del Veneto, Teatro Nazionale.
TEATRO CAMPLOY
Tra le più recenti sale da spettacolo a Verona il Teatro Camploy nasceall’interno di un peculiare palazzo ottocentesco da un disegno articolato sviluppatosi nell’arco di ben sedici anni, dal 1982 al 1998, con progetto completato dall’architetto Rinaldo Olivieri. Unisce, in sintesi architettonica, una struttura d’epoca a ricercate soluzioni all’avanguardia,arricchito dalle pitture di Sergio Piccoli. Uno spaziodi esperienze teatrali che,collocato in un luogo particolarmente significativo del secolare sviluppo urbano veronese ein riferimento a simboli progettistici del Veneto, si pone idealmentein continuazione della tradizione del territorio. Tra antico e moderno,si sviluppa con soluzioni tra le più ardite, all’interno «con grande libertà espressiva». È intitolato a Giuseppe Camploy ,vissuto tra fine Settecento e Ottocento, che nominò erede del suo cospicuo patrimonio il Comune di Verona, a beneficio della costruzione di un asilo notturno per disagiati. Lo stesso Camploy svolse attività in campo teatrale, proprietario del Teatro San Samuele a Venezia ed impresario a Verona. La programmazione del moderno spazio si affaccia a proposte contemporanee con rassegne di teatro di prosa, musicale e di danza, di discipline senza limitazione di genere.
VICENZA
Il Teatro Olimpico
Con l'Olimpico di Vicenza l'architettura si evolve in scuola di pensiero e la forma, nella sua compiutezza, si realizza simbolicamente in rappresentazione facendosi tramite della «vera bellezza e leggiadria degli antichi». Intento dell’architetto e scenografo Andrea Palladio nel progetto per il rinascimentale Olimpico è quello di ricreare nell’ambiente teatrale le «leggi della segreta armonia (…) che aveva indagato con lunga fatica, e gran diligenza e amore» per tutta la vita. Proporre con percezione umanistica il modello dei classici, dallo studio delle rovine dei teatri romani, nella percezione delle forme così come trasmesso da Vitruvio nel suo trattato De architettura del I secolo a.C. . Il risultato è quello di una struttura espressiva che all'interno di uno spazio chiuso riassume la collocazione all'aperto del teatro "all'antica". Scriverà Goethe alcuni secoli più tardi: «Il Teatro Olimpico è un teatro alla maniera degli antichi, realizzato in scala più piccola, indicibilmente più bello (…)». La costruzione dell’Olimpico si lega idealmente alla storia della città, a quando venne edificato il Teatro Berga nel I secolo d. C. realizzato nella pietra estratta dalle cave di calcarea, la cosiddetta di Costozza. La scena era rivestita da marmi policromi provenienti da varie zone dell’Italia, dal Nord-Africa, dalla Grecia e dal Vicino Oriente, abbellita da colonne e statue marmoree a cui ne verranno aggiunte di celebranti la dinastia Giulio-Claudia. Si presume che la capienza fosse di circa cinquemila spettatori. Dal III secolo inesorabile l’abbandono, nel XVI le murature dovevano essere ancora ben delineate e l’intero complesso verrà analizzato meticolosamente da Andrea Palladio, che nei suoi studi e disegni delle strutture d’antichità classica ne effettuò una minuziosa descrizione. L’insigne studioso vicentino trasse ispirazione per l’Olimpico proprio dalle indagini sui ruderi del Berga, di misure e proporzioni. Per la genesi vera e propria del Teatro Olimpico si risale al 1555, quando a modello d’istituzioni che si andavano formando nei Domini di Terraferma della Repubblica di Venezia, s’incontra a Vicenza «una scelta Compagnia di virtuosi, e gentili spiriti della Città» composta da 21 membri, di cui lo stesso Palladio era socio. Sodalizio di personalità nell’ambito delle lettere, scienze ed arti: «tutti nelle greche, latine e volgari lettere eccellentissime». Andrea Palladio venne da subito coinvolto dagli accademici per la realizzazione di spazi teatrali e scenografie in svariati luoghi della città, mettendo in pratica il frutto dei suoi studi. Di questi allestimenti si ha traccia nel 1557 nel palcoscenico eretto per il Carnevale nel cortile della sede Olimpica di Palazzo al Porto, per la commedia La ragazza di Andro di Terenzio nella traduzione di Alessandro Massaria, pur se le cronache delle accademie non ne citano espressamente il nome. L’anno successivo si apre un altro spazio scenico, allestito e smontato in occasione dei Giochi Olimpici. Di maggiore interesse nel 1561/62 nel Salone della Basilica per Amor Costante di Alessandro Piccolomini e Sofonisba di Giangiorgio Trissino, teatro allestito in legname «(…) con tanto splendore», con artifici tecnici e progettualità che saranno precorritori del progetto dell’Olimpico. Già nel 1579 venne lamentato dagli accademici che dopo la rappresentazione di Sofonisba la città mancava di adeguate iniziative e il 15 febbraio 1580 si decise che a Vicenza si avesse bisogno di un teatro stabilmente costituito. A tale scopo venne inoltrata una supplica al Comune, con immediata risposta affermativa, ottenendo dalla municipalità la concessione di poter realizzare un proprio spazio scenico all'interno delle prigioni vecchie del Castello del Territorio, così che «diesi principio alla gran fabbrica», con incarico al “coaccademico” Andrea Palladio. L’architetto si applicò al progetto presentando il “modello” con allegato il «disegno parimenti delle prospettive», è da notare come la scena venisse concepita a seconda della destinazione del lavoro da rappresentarvi: tragedia, commedia oppure, come prescelto, favola pastorale. Il 23 maggio gli accademici avevano già provveduto a tassarsi per la realizzazione del nuovo teatro: «obbligandosi di pagar quel tanto che a ciascuno pareva». Si deliberava altresì «che ogni accademico possa a spesa sua propria far fare la sua statua di stucco (…) quali statue debbono esser poste nei piedistalli delle colonne e nicchi dell’apparato (…) vestiti all’antica», ovvero nel scenafronte, decorando la loggia sopra la cavea, ritenendo: «molto convenevole che facendosi spesa così onorata per cosa perpetua resti anche perpetua memoria di quegli accademici che vi saranno concorsi». All’età di settantadue anni, Il 19 agosto di quell’anno, Andrea Palladio moriva improvvisamente, lasciando gran parte dei cantieri non completati, tra questi quello dell’Olimpico, di cui erano in fase di realizzazione le mura perimetrali. La volontà degli accademici vicentini fu quello di proseguire nel completamento del lavoro, affidandone la prosecuzione a Silla, figlio di Andrea Palladio. I lavori si concluderanno nel 1584, pur limitatamente alla cavea completa di loggia e al proscenio. Dagli accademici venne riaffermata l’esigenza che fosse realizzata per lo spettacolo inaugurale una scena "a prospettive", richiesta ritenuta non corrisposta nel progetto originale, vi mancavano a parere dei committenti quelle “prospettive” che avrebbero dovuto appagare la percezione di spettacolarità, ma per realizzarne di adeguate lo spazio a disposizione si dimostrò insufficiente. Il 17 agosto 1581 venne inoltrata la supplica al Consiglio civico di consentire l’uso di una porzione di terreno attigua a quello già concesso perché: «sarà bisogno per far le prospettive, senza le quali non potria dar perfezione alla fabricaë». Nel 1583, quando i lavori erano vicini al termine, la scelta del testo da rappresentare per l’evento, che avrebbe condizionato la realizzazione della scenografia, venne commutato da genere pastorale a tragedia: Edipo re di Sofocle considerata da Aristotele dramma per eccellenza, nella traduzione del veneziano Orsatto Giustiniani. Responsabile della messa in scena il ferrarese Angelo Ingegneri, che fedele alle convenzioni tardo cinquecentesche impose che l’allestimento «si assomigli per l’Edipo a Tebe città di Beotica e sede ‘imperio». Il 6 maggio 1584 venne dato incarico di realizzare la scenografia con le adeguate “prospettive” a Vincenzo Scamozzi. L’architetto e scenografo vicentino ideò delle scene lignee di grande effetto per il loro illusionismo prospettico, impianto che definendo lo spazio dello spettacolo distaccato da quello dei fruitori si poneva di fatto in contrapposizione con l’ideale palladiano che ne concepiva la continuità affermando che il proscenio fosse elemento aggregante e non di separazione. L’azione scenica sarà così destinata al proscenio e la scenografia ne dovrà definire la profondità, con prospettiva che darà l’illusione di profondità: percorsa da cinque strade con templi, palazzi, case, dell’ambiente urbano vicentino. Scamozzi apportò, inoltre, alcune modifiche al progetto di Palladio e a lui vengono attribuite le adiacenti sale dell'Odèo e dell'Antiodèo, decorate nel Seicento dal pittore vicentino Francesco Maffei. È tra verità e leggenda che Scamozzi, geloso del genio del maestro, vendette i suoi progetti in Inghilterra, affinché se ne perdesse traccia. Il 3 marzo 1585 l’Olimpico apre le porte al pubblico con una messa in scena spettacolare di Edipo re. Gli intermezzi e musiche per il coro sono composti da Andrea Gabrieli, i costumi disegnati dal pittore Giambattista Maganza e il sofisticato impianto d’illuminazione progettato da Angelo Ingegneri. A coronamento di un’attività di drammaturgo e di attore, è invitato per il ruolo principale Luigi Grotto detto il Cieco d’Adria. Il successo è strepitoso, l’Olimpico divenne ben presto il «più famoso teatro del mondo»; il più antico coperto e in muratura in età moderna, dal 1994 patrimonio dell’umanità. Il letterato e diplomatico Filippo Pigafetta che aveva assistito a una recita di Sofonisba e poi a Edipo re, scrisse: «(…) non si intende dagli antichi in qua essere stata più magnificamente recitata alcuna tragedia né con più fissa maestria d’architettura né con migliore ordine nei cori e nei recitanti». Costruite appositamente per lo spettacolo inaugurale le scenografie avrebbero dovuto essere rimosse dopo la recita, ma vi rimarranno fisse per cinque secoli e ancor oggi presenti, sfidando ogni pericolo, dall’incendio agli eventi bellici, alterando la loro finalità di fittizio scenario in elemento inscindibile di compattezza formale. Il proscenio si apre al centro con un arco trionfale (porta regia), dal quale sporge lo stemma di Vicenza e la scritta latina “Hoc opus, hic labor est”, motto dell'Accademia degli Olimpici. Si basano su alcune stampa del Seicento ipotesi sulle coperture, dove il palcoscenico appariva protetto da un soffitto a cassettoni con riquadri dipinti, mentre sulla cavea e sulle scene centrali era rappresentato un “finto aere”. Nel corso dell’Ottocento furono elaborate diverse soluzioni, finché nel 1914, su progetto di Marco Dondi Dall’Orologio, si realizzava sopra il proscenio l’attuale soffitto a cassettoni, con decorazioni di Umberto Brambilla e dipinti di Ludovico Pogliaghi. Contemporaneamente sul soffitto della cavea veniva dipinto un “finto cielo” a opera di Ferdinando Bialetti. La tragedia di Sofocle ricorrerà spesso nelle attività dell’Olimpico. Ben presto ci si accorse che l’utilizzo si mostrava limitato e problematico e per secoli il teatro venne poco utilizzato per ospitare spettacoli. All’interno si svolsero feste, tornei e cerimonie in occasione di visite di personaggi illustri, tra cui Napoleone, l'imperatore Francesco I, il re d'Italia Vittorio Emanuele II. A seguito del decreto napoleonico di confisca del 1813 la proprietà passò dall’Accademia al Comune di Vicenza. La tragedia di Sofocle Edipo re venne riproposta in epoca risorgimentale il 15 settembre del 1847 e nell’occasione si scrisse che l’Olimpico «tornava protagonista» della vita cittadina. La produzione si annunciava memorabile, con orchestra, coro e pubblico d’eccezione, nel ruolo principale uno tra gli attori e patrioti più celebrati, il veneziano Gustavo Modena, quella sera colpito da un’improvvisa afonia e costretto a limitare i suoi interventi omettendo molte parti della tragedia, con delusione dei presenti e in particolare di tutti quegli intellettuali vicentini che vennero accusati di “continuare” a voler far rivivere la tragedia greca con il gusto melodrammatico del tempo. L’Olimpico si richiudeva nel silenzio se non per eventi celebrativi, per imporsi agli albori del Novecento nuovamente con Edipo re, protagonista Gustavo Salvini e fu un successo! Sempre Sofocle con attore Gustavo Salvini nel 1909 e nel 1925. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale le scene di Scamozzi vennero smontate e protette; il rimontaggio avvenne nel 1948. Tornò Salvini nel 1948 quale regista con un “coro” di giovanissimi talenti: Giorgio De Lullo, Giancarlo Sbragia, Giorgio Strehler. Nel 1963 la messa in scena della tragedia è affidata al celebre attore e regista greco Alexis Minotis e nel 1973 ad inaugurazione di una nutrita stagione il regista è Virginio Puecher. Fra le rassegne e spettacoli ospitati, di rilievo la collaborazione con La Fenice nel 1959, su iniziativa di Maria Bellonci all’Olimpico è rappresentato il dramma per musica L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, con l’orchestra e il coro dell’Ente lirico veneziano. Dal 1983 il festival “Mozart in Italia e il teatro musicale veneto – Le feste teatrali”, ideato da Italo Gomez, direttore artistico del Gran Teatro La Fenice di Venezia. Intitolava un quotidiano: «Italo Gomez, l’uomo che “ricreò” il Teatro Olimpico». Il progetto prevedeva la rappresentazione di opere di Wolfgang Amadeus Mozart degli anni giovanili, oltre a lavori di compositori veneti del Barocco: Albinoni e Vivaldi. L’esperienza durò fino al 1988, con spettacoli in prima assoluta in epoca moderna, che rivelarono le possibilità del teatro palladiano quale palcoscenico per l’opera e portarono a Vicenza grandi interpreti; direttori quali Christopher Hogwood, Alan Curtis e tra i registi Graham Vick, Pier Luigi Pizzi e Jean-Pierre Ponnelle. Spettacoli che hanno fatto epoca quali il 7 Giugno 1983 Il Nascimento dell’Aurora di Albinoni, direttore Claudio Scimone, con June Anderson; l’opera Giustino di Vivaldi; Mitridate, il Re Pastore, Ascanio in Alba e Il sogno di Scipione di Mozart. Non mancarono vivaci polemiche sul tema della conservazione del monumento e dei rischi nel suo utilizzo. Il Comune, d’intesa con la Soprintendenza, redasse un rigidissimo regolamento tutt’ora in vigore, che impedisce qualsiasi intervento scenografico aggiuntivo all’impianto storico di palcoscenico. Le stagioni si succederanno con il Ciclo degli Spettacoli classici dedicato alla prosa. Iniziative di svariato genere sono maturate nel tempo, le Settimane Musicali all’Olimpico e le altre numerose proposte che utilizzano il teatro per l’opera in musica.
Il Teatro Delle Garzerie, poi Di Piazza
Nel Cinque/Seicento a Vicenza fiorivano sale di palazzo e di piazza, edificate con legni effimeri. Come in molte altre città il passaggio tra il ‘500 classico e il ‘600 baroccheggiante si rivelerà segnatamente traumatico nella percezione della novità. Al sorgere dell’Età dei Lumi il mutamento influenzerà la vita sociale e culturale della città nel suo orgoglioso ruolo di cuore dei Domini di terraferma della Repubblica di Venezia. A due secoli dall’inaugurazione dell’Olimpico, consapevoli della difficoltà dell’utilizzo di quella struttura a causa della sua fragilità e dall’impossibilità di effettuare ogni cambiamento di scenografia, il sogno dagli Accademici di richiamare alla vita le grandi opere degli antichi poeti volgeva al tramonto. Sempre più la società si sarebbe rivolta al riformato modello di spettacolo, il melodramma. All’Olimpico di stampo antico e classico, si opporranno dal Seicento i così detti teatri moderni, allo stile di Venezia o meglio conosciuti come “all’italiana”. A Vicenza, stratificati o al di più su fondi contigui, si succedono nel XVI e XVII secolo diversi edifici adibiti alla rappresentazione, nel 1650 sono due i teatri operanti, il primo detto delle Garzerie alle Pescherie Vecchie di proprietà di Filippo Castelli e un secondo in Contra’ della Racchetta al Pallamaio della famiglia Tornieri, chiamato successivamente Teatro delle Grazie, con minuscolo palcoscenico. Delle attività del Teatro delle Garzerie, successivamente Delle Grazie, s’ipotizza risalente al Cinquecento, si ha documentazione successiva, circa dal 1630, costituito da una sala di sola platea. Prese il nome dal Collegio sopra il quale era edificato, l’antica sede dell’Arte della lana. Per diversi anni vi si rappresentarono commedie, quindi spettacoli musicali. Ristrutturato nel 1655 su disegno all’italiana, venne dotato di due file di palchi ed è il primo che a definirsi “moderno” a Vicenza, cioè alla moda dei teatri della Serenissima. Per l’inaugurazione, in veste rinnovata, è rappresentata l’opera d’argomento ariostesco Angelica in India - “Istoria favoleggiata con Drama musicale” su libretto di Pier Paolo Bissari, che ebbe il pregio di promuovere a Vicenza l’opera in musica alla veneziana. Fu sotto la guida del conte Bissari, d’illustre famiglia vicentina, collaboratore dell’Accademia Olimpica, associato all’Accademia degli Incogniti, fondatore l'Accademia dei Rifioriti e poeta per melodrammi, che le attività teatrali della città vantarono un periodo di splendore. Già nel 1640 l'Accademia Olimpica lo aveva inviato con successo a Venezia per chiedere la ripresa degli spettacoli all’Olimpico, fu durante quei soggiorni che ebbe modo di conoscere il melodramma, di cui divenne appassionato divulgatore. Due anni dopo fu eletto principe degli olimpici. Nel dicembre del 1683 un vasto incendio scoppiato nei magazzini delle Garzerie devastò il salone per gli spettacoli, oltre a parte degli edifici adiacenti. Tre aristocratici vicentini, nel 1688/89 decisero di costruire nello stesso luogo un teatro su disegno dell’architetto veneziano Marco Tomassini, riccamente decorato da Pietro e Giuseppe Paresanti; il “teatro nuovissimo”, denominato Di Piazza, poiché poco distante dalla piazza dei Signori. La sala aveva mantenuto la precedente pianta a U, si presentava con quattro ordini di ventidue palchi ciascuno, con capienza di circa cinquecento-quaranta spettatori. I palchi furono arredati, ognuno, seguendo le istruzioni dei proprietari che li allestirono come se fossero piccoli salotti, con il proprio stemma gentilizio sul prospetto. Sotto il porticato si apriva un locale di ristoro. Inaugurazione con L’incoronazione di Dario di Tommaso Freschi. Ebbe vita splendida per oltre un secolo, vantando molteplici prime assolute, tra cui Ottone in villa di Antonio Vivaldi. A inizio Settecento il primato della qualità degli allestimenti e la fama raggiunta vennero offuscati dal successo del recente Teatro delle Grazie, che ben presto divenne il prediletto dal pubblico. Gradatamente iniziò l’ascesa, ormai in stato di decadenza fu acquistato alla fine del secolo da alcuni nobili vicentini allo scopo di costruire una diversa sede che ospitasse il Massimo vicentino, di fattura più nobile ed ampia, quello che sarà il Teatro Nuovo. Un’apposita commissione il 3 maggio 1777 ne concluse l’acquisto, deliberandone la chiusura, ma il “Nuovo” non sorgerà sulle rovine del vetusto fabbricato, bensì poco distante, con abile stratagemma dei promotori i quali, non volendo si potesse speculare nell’idea che a Vicenza si volesse dedicare un terzo palcoscenico alle rappresentazioni operistiche, ne fecero stabilire la continuazione con il Delle Grazie realizzando, però, un edificio del tutto inedito e in altro luogo, abbandonando alla rovina l’ormai vetusta struttura. La deputazione provinciale, dopo attenti sopralluoghi e perizie, a causa della vicinanza con la fabbrica tessile a prevenzione d’incendi sempre frequenti nella strutture lignee del tempo e a scopo di salvaguardare la non lontana Basilica Palladiana, diede il via libera al progetto della costruzione del Nuovo, che verrà successivamente chiamato Eretenio, da edificare in prossimità delle rive del fiume Retrone. A tutt’oggi la struttura portante del Teatro delle Garzerie poi Di Piazza è riconoscibile nella facciata, per il suo alto porticato e il timpano a conclusione dell’edificio adibito ad edilizia privata.
Teatro Delle Grazie
Il secondo teatro seicentesco di Vicenza è il Delle Grazie, eretto dalla distruzione del precedente di Racchetta. Situato in Contrà Racchetta al Pallamaio, conosciuto quale Teatro Racchetta o della famiglia Tornieri, era luogo d’intrattenimento, il cui palcoscenico ospitava principalmente rappresentazioni comiche. Nel 1711, essendo oramai in rovina, venne ceduto dal proprietario, il medico e fisico Marco Tornieri, ad esponenti della nobiltà vicentina in cambio di ventiduemila ducati annui con fondo a cessione duratura, ossia concedendo l’uso del terreno su cui si progettava di costruire l’attuale edificio per un periodo illimitato, ma mantenendone la proprietà. Il Tornieri, inoltre, si riservava nell’erigendo teatro: «due palchi in libero uso e possesso oltre all'ingresso libero agli spettacoli per sé, famiglia e servi, in perpetuo». I lavori furono realizzati dal 1703 al 1712 su progetto dell’architetto Giuseppe Marchi. Il Teatro delle Grazie detto anche Nuovo delle Grazie, secondo e più lussuoso ambiente per la rappresentazione d'opere liriche a Vicenza, era capace di ospitare circa mille spettatori, si mostrava con sala a ferro di cavallo e quattro ordini di ventisei palchi ciascuno, più una soffitta con funzione di loggione. Inaugurazione con la prima assoluta del dramma per musica Peribea in Salamina - “drama per musica da rappresentarsi nel nuovo Teatro delle Grazie in Vicenza per la fiera del maggio 1712: alle illustrissime dame” con musica di Carlo Francesco Pollarolo. Era il più grande teatro vicentino, venne eletto ben presto, nella mutevole predilezione dei cittadini, quale “palcoscenico alla moda" per nobiltà e borghesia. Nei ricchi cartelloni, il 17 maggio del 1713 un’altra prima assoluta: Ottone in villa opera a tre atti di Antonio Vivaldi su libretto di Domenico Lalli. Alle Grazie trionfavano le opere di Baldassare Galluppi, Antonio Caldara, Giovanni Paisiello, esponenti della scuola veneziana e napoletana e lì si fecero applaudire i cantanti più famosi del secolo. Quando si sparse la notizia che si voleva costruirne uno più grande ed elegante in riva al Retrone, il conte Ottavio Trento che ne curava la gestione e proprietà fece subito restaurare il teatro e costruire una facciata decorosa per confermarne la preminenza. La notte del 24 settembre 1783 scoppiò un terribile incendio; in una sola +ora il Delle Grazie veniva completamente distrutto. Spariva l’ultimo esempio di quel fatuo settecentesco rococò, cedendo il passo al consolidato Settecento razionalista. Quando fu determinata la costruzione del Nuovo in riva al Retrone, Il Teatro delle Grazie aveva proseguito nella sue attività, ma solo per pochi anni.
Il Teatro Berico
La Vicenza settecentesca è un centro dalla vita esuberante, vi sostarono Goethe e Goldoni e per una notte il giovane Mozart, accolse nei suoi teatri il debuttante Vivaldi operista e aveva contribuito all’affermarsi del napoletano Domenico Cimarosa in connubio con Pietro Metastasio; qui si vissero le ultime vicende del governo della Serenissima prima dell’avvento napoleonico, accogliendo intellettuali “progressisti” nel salotto di Elisabetta Caminer. Il Teatro Berico nasce a Vicenza nel 1774 in Contrà Santi Apostoli quale spazio privato, dalla temerarietà di una dama dell’alta società aderente al movimento illuminista vicentino, un luogo rituale di ritrovo e discussione delle nuove idee che serpeggiavano in Europa. La società è scossa da venti per la proclamazione dei principi di liberà, fraternità, uguaglianza dalla Francia del 1789, unitamente alla precarietà causata dalla caduta dell’Ancien Régime ed è in questo clima che assume spessore la figura di Elisabetta Turra-Camier, detta la “passionaria”. Nativa di Venezia, scrittrice ed editrice, figlia di Domenico Camier uomo di grande cultura; dopo aver sposato il botanico vicentino Antonio Turra formò intorno a sé un circolo di prescelti. Il Monte Berico è un colle che sovrasta il centro storico di Vicenza. Il palcoscenico ospitava per lo più opere in prosa, elegie, cantate patriotiche. Sorto in via Santi Apostoli fu rigorosamente a disposizione dei soli soci, nel rispetto degli ideali fondanti le quattro file delle logge erano aperte, abolendo rappresentativamente i divisori dei palchi. Con il trattato di Campoformio dell’ottobre del 1797 l’autorevolezza francese pareva giunta al termine, l’anno seguente gli austriaci entravano in città. Segno di cambiamento di opinioni e di costumi, per il Berico è il momento della trasformazione da sala privata a pubblica con separazione delle democratiche gallerie, ottimizzate in aristocratiche file di palchi. La sala poteva ospitare fino a cinquecento spettatori, l’aspirazione della nuova gestione era quella di poter ospitare l’opera, con l’ambizione di rivaleggiare con l’Eretenio. Fatta richiesta e ottenuta nel 1799 la concessione dalle autorità di presentare lavori in musica, si arrivò al compromesso, il Berico avrebbe potuto programmarli, soprattutto del repertorio buffo, nei periodo d’inattività del Massimo cittadino, escluse di conseguenza le stagioni di Carnevale e d’Estate, quest’ultima legata alla Fiera. Al Berico restavano gli altri mesi, penalizzati da un minore afflusso di pubblico pagante. La direzione del teatro, per nulla scoraggiata, allestì per quanto di competenza programmi di tutto rispetto, principalmente con riprese di titoli che avevano ottenuto successo nel territorio del Leone di San Marco. Dopo circa un ventennio per l’Eretenio s’intravedevano i primi segni della crisi causata delle spese eccessive sostenute per assicurare a Vicenza quel primato di cui andare orgogliosi e per la stagione di Carnevale 1819/20 fu evidente che avrebbe serbato tutte le risorse economiche per la stagione d’Estate, legata alla proficua promozione della Fiera, mentre nella stagione fredda avrebbe ospitato solo qualche compagnia di prosa. I responsabili del Berico non si fecero sfuggire l’occasione e forti della convenzione di aprire il loro spazio quando l’altro era chiuso, decisero d’investire non più nell’opera buffa, ma proponendo la novità dell’opera semiseria, con La gazza ladra di Giachino Rossini, riscuotendo un tale successo da potersi considerare non più quale teatro secondario, bensì valida alternativa al principale della città. Tra gli eventi di richiamo mondano che fecero clamore, vi si rappresentò il dramma giocoso per musica Don Desiderio con testo di Cassiano Zaccagnini, musicato dal pronipote dell’ultimo re di Polonia, il principe Giuseppe Poniatowski, compositore, tenore, librettista e diplomatico. Dopo la chiusura forzata del ’48, nel 1851 il Berico fu il primo a riaprire al pubblico, il 19 marzo 1851 con Martin Faliero di Donizetti, confermando la sua vitalità. Almeno sino all’apertura del Nuovo/Verdi a Campo Marzo.
Il Teatro Nuovo – Eretenio
Cinque nobili cittadini in data 3 maggio 1777 acquistarono il Teatro di Piazza per la cifra di duemilaseicento ducati, concedendo ai venditori, fratelli Angaran e al nobile Repetta, la proprietà di un palco di proscenio al primo ordine del nuovo fabbricato. In questa fase iniziale tutto procederà speditamente, l’intenzione era di fondare a Vicenza un teatro confacente allo sviluppo sociale e culturale della città. Eppure si dovevano affrontare quelle che sarebbero state le resistenze e che il progetto, in fase ideativa, non risultasse all’opinione pubblica quale superfluo terzo palcoscenico di Vicenza. Con la formula dell’acquisto del Di Piazza l’ostacolo veniva rimosso in quanto il Nuovo sarebbe andato a sostituire uno spazio teatrale già esistente. Si doveva, ora, affrontare il problema di avere la concessione di edificare il Nuovo in una diversa sede, più adeguata a ospitare un edificio all’altezza delle ambizioni. La giustificazione fu che il fabbricato dove era situato il Teatro di Piazza, già Delle Garzerie, era poco affidabile a causa dell’ubicazione e la struttura non garantiva un’adeguata sicurezza. Con supplica del 18 giugno 1777 il gruppo dei fondatori fece domanda ai Deputati della città di trasferire «in miglior luogo» il Di Piazza che essendo collocato dove era il Collegio dell’Arte della lana era esposto al pericolo d’incendio, minaccia che avrebbe potuto propagarsi al vicino Palazzo della Ragione: «singolare adornamento della Città stessa». Nonostante le resistenze a concedere l’autorizzazione, i risultati della perizia del 24 novembre 1777 dimostrarono l’effettiva pericolosità dell’antico Teatro alle Pescherie Vecchie in caso d’incendio. La supplica venne accettata all’unanimità, ma egualmente non mancarono critiche al progetto, tra cui quella autorevole del conte Ottavio Trento proprietario del Teatro delle Grazie, a cui si aggiunse il disaccordo di alcuni palchettisti che reputavano il Teatro di Piazza «sufficiente alla città». Per la nuova struttura vennero proposti svariati luoghi e la scelta ricadde dove era il palazzo Quinto in Campagnon, di cui si potevano utilizzare i legnami derivanti dalla demolizione. Secondo il “Giornale Storico” che riportava opinioni diffuse, per gestire la nuova attività era necessario fondare un’apposita Accademia, affinché fosse garante della qualità dell’offerta, non più monopolizzata da un proprietario unico, il cui scopo sarebbe stato prettamente di ordine speculativo. Per nulla scoraggiati, irreprensibili sulle finalità dei propri ideali, il 4 agosto 1777 l’impresa presentava ai futuri palchettisti il piano della fabbrica, con specificata la somma da versare dopo l’acquisto del fondo, congiunta all’annuncio della costituenda Accademia Eretina, che del teatro avrebbe promosso la costruzione e sostenuto le spese. A memoria l’iscrizione murata all’estremità del portico dalla quale risultava che il teatro era «ab affluente amne Eretenium non cupatum» ovvero che l’Accademia avrebbe preso il nome dal fiume che scorreva vicino «Il fiume Retrone nomavasi anche Eretenio». Non tutti concordano che questa sia la reale origine del nome dell’Accademia e del Teatro, bensì asseriscono che umanisti e accademici per nobilitare l’onomastica, quando non riesumavano nomi desueti, ne inventavano di nuovi e che la metamorfosi tra fiume Retrone ed Eretenio sia frutto unicamente di un formalismo di maniera. L'Accademia si diede le norme fondanti il 23 dicembre 1784 con l’obbiettivo di «far eseguire rappresentazioni teatrali di opere eroiche, buffe o commedie tre volte l'anno, e non di più». Nel 1785 i proprietari dei palchi definirono uno statuto più articolato allo scopo di «promuovere insieme nel nuovo Teatro l'esercizio de' spettacoli li più decorosi ad universale contentamento degli Accademici». Per la scelta dell’artefice vennero fissate regole ben precise: «Si dovranno aver solo quattro ordini, il soffitto però non dovrà essere piatto, ma a volte: e sopra ogni palco del terzo ordine, eccettuati li proscenj, vi dovrà essere una lunetta (…) Vi dovranno essere 25 palchi per ordine, compresi 4 proscenj, posti e situati questi in modo rispetto al palco della scena che per ogni ordine se ne possa aggiungere due verso la scena anche a teatro compiuto (…) Per le misure dei palchi si veda il teatro di Padova, per la platea quello di Mestre». Celebri progettisti presentarono disegni, tra cui eminenti architetti vicentini, i quali si mostrano poco inclini alla forme di un teatro moderno, quale si stava affermando a Venezia e nel territorio italiano, restando fedeli a quelle classiche stabilite dalla scuola palladiana. La scelta non fu facile e passarono ben due anni prima che fosse indicato l’architetto e scenografo veneziano Antonio Mauri, che aveva già realizzato molte sale che riscuotevano consensi nella Serenissima e presso le corti europee. La realizzazione della facciata verrà affidata a Ottavio Bertotti-Scamozi, in continuità con la tradizione rinascimentale di Vincenzo Scamozzi, a cui si deve il completamento dell’Olimpico. Si cominciò, quindi, a pensare a quelle sale di rappresentanza, ingresso, atrio, caffè, odeo, ambienti di riunione per ospitare gli eventi dell’Accademia, che si richiedevano di significativa rappresentanza. Il permesso per la costruzione venne concessa dal Serenissimo Principe il 16 settembre 1779, con la raccomandazione che la fabbrica fosse eseguita senza arbitrarie alterazioni e questo in netta contrapposizione con quelle che erano reputate le dissolutezze stilistiche del Teatro Delle Grazie, dove a ogni famiglia era stato permesso di ornare liberamente la propria loggia, gareggiando in sfarzo e frivolezza. Veniva così stabilito il carattere del tutto opposto con i precedenti edifici teatrali, attestando che nel Nuovo la bellezza della sala era da intendersi nella concordanza delle forme: «Dalla materiale costruzione del Teatro (…) dalla distribuzione ed uniformità tra i suoi Palchi, deriva un’armonica simmetria che lo rende universalmente applaudito con soddisfazione di quest’Accademia». La sala offriva milleduecento posti ed era dotata di un loggione ricavato nella soffitta. Il palcoscenico si sarebbe voluto non di grandezza eccessiva, mancando l’opera veneziana per lo più dei cori o se presenti in numero ridotto e i solisti quasi sempre in proscenio, affinché ne fossero meglio apprezzati i virtuosismi canori. Nonostante questa premessa, venne egualmente realizzato un palco di misure considerevoli, alto oltre gli otto metri, largo più di dieci e profondo quattordici metri. Scrive Nicolò Maina: «La forma della sala era a ferro di cavallo (…) i palchi erano venticinque per ordine; la distanza dal palco centrale sopra la porta d’ingresso al palcoscenico era di circa 20 metri, circostanza (…) che forma anche il vantaggio, che dai Palchi più lontani, si sentono bene le voci dei Cantanti». Delle apposite aperture progettate da Antonio Mauri permettevano di abbassare ed alzare le “Ciocche”, ovvero i lampadari che illuminavano la sala durante le feste. Altra invenzione la platea mobile, il pavimento del palcoscenico era regolato da un originale marchingegno che lo faceva abbassare a livello della platea: «come nei tempi passati s’alzava nel Teatro Olimpico di Vicenza il Piano dell’Orchestra a livello del piano del Pulpito». Si era pensato anche alla sicurezza, perché se il Teatro di Piazza aveva una sola porta per l’ingresso e l’uscita del pubblico, il Nuovo garantiva in caso d’incendio maggiore razionalità e per di più aveva vicino il fiume: «al caso mai per estinguerlo». I lavori iniziarono nel 1776 e si conclusero nel 1784. Nel frattempo, nel 1783 un incendio, probabilmente doloso, distruggeva il Teatro delle Grazie. Il Nuovo più tardi chiamato Eretenio dal nome dell’Accademia, nasceva così quale Massimo vicentino. Per l’inaugurazione si scelse di non presentare una tragedia classica quale Edipo re, con cui si era aperto due secoli prima l’Olimpico, bensì in prima assoluta un melodramma tragico a cui dovevano seguire due balli. L’Accademia trovò disponibile per l’evento il compositore Domenico Cimarosa che avrebbe posto in musica L’Olimpiade su poesia di Pietro Metastasio. I due balli Gli amori di Eroe Leandro e La pastorella delle Alpi furono musicati da Domenico Ricciardi. L’inaugurazione avvenne con sontuosità il 10 luglio 1784, evento che come di prassi consolidata suscitò pareri discordanti, il conte Arnaldo Tornieri scrisse :«La musica in parte buona assai, in parte mediocre (…) i Balli meschinissimi (…) Si aspettava cosa maggiore». Lo spettacolo di apertura, nonostante i detrattori, fu un successo, nelle memorie di Giuseppe Dian si legge: «Il concorso di forastieri da tutta Italia non solo, ma da altre parti d’Europa fu immenso. La rappresentazione incontrò il genio universale (...). In tal circostanza Vicenza sembrava una Capitale». Nel frattempo in città s’intensificavano le voci ostili al Nuovo e si acuiva il conflitto tra i sostenitori del “teatro degli antichi” a discapito del “Moderno”. Nel settembre del 1786 Wolfgang Goethe assistette alla rappresentazione del dramma giocoso per musica Il serraglio di Osmano del vicentino Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertani e definì il Teatro Nuovo: «grazioso, bello, modesto e grandioso insieme». Innumerevoli furono le commissioni a celebri compositori, il pubblico dimostrò di prediligere i lavori di Domenico Cimarosa e l’interesse nei decenni andava indirizzandosi sempre meno a favore della scuola veneziana e sempre più verso quella napoletana. L’opera buffa si alternava con i diversi generi, anche condizionati da eventi concomitanti come per l’avvento del giacobinismo, che impose scelte di carattere concettuale. Con l’alternarsi del regime francese a quello austriaco i melodrammi furono sostituiti da opere satiriche ispirate alla situazione politica del momento. Nel 1813 l’impero austriaco s’impone nuovamente su quello francese, consegnando alla città un periodo di vivace fervore artistico. Il ventunenne Gioachino Rossini, di cui il palcoscenico nel 1810 aveva ospitato opere giovanili, si recava tre anni dopo all’Eretenio con L’italiana in Algeri, protagonista così come per il recente debutto veneziano il mezzosoprano/contralto Marietta Marcolini, favorita del compositore per la quale aveva appositamente scritto il ruolo di Isabella. Stendhal, adoratore della Marcolini e della musica di Rossini, corse a Vicenza proprio per una recita del dramma giocoso, ammirato dalle peripezie della celebre interprete per la quale l’autore aveva appositamente scritto variazioni mirabolanti, appuntò: «Se la Marcolini l’avesse voluto, Rossini l’avrebbe fatta cantare a cavallo». A Vicenza, dopo la passione per la musica di Cimarosa, l’opinione pubblica si mutò in fervente rossiniana. Nel 1824 fece il suo ingresso Saverio Mercadante che con Giovanni Pacini fu tra i compositori più rappresentati. Aveva inizio l’epoca del Romanticismo e all’Eretenio vennero acclamati Gaetano Donizetti e dal 1844/45 Giuseppe Verdi, inizialmente con Ernani e a seguire Nabucco, musicista con il quale la città e i suoi due teatri, l’Eretenio e successivamente il Comunale/Verdi, vissero momenti di fervente ardore morale e indipendentista. La gestione dell’Accademia si trovava spesso in difficoltà finanziarie a causa degli esborsi per garantire sfarzosi allestimenti e la presenza di artisti famosi, tra questi Giovan Battista Rubini di cui si conserva uno dei contratti: «Data della scrittura 5 aprile 1830 (…) Ruolo: I tenore; condizioni: non può essere obbligato a cantare più di 4 volte per settimana. Ha diritto di alloggio mobiliati e ad una serata esente da spese». Di Vincenzo Bellini si erano proposti Il pirata, I Capuleti e i Montecchi e La straniera, ma dopo il 1835, a seguito della notizia dell’immatura scomparsa, gli accademici vollero presentare Norma, La sonnambula e I puritani, che riscossero un tale favore da entrare nel repertorio e mai più uscirne. Nella stagione del 1836 il titolo di maggior attrazione è Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, musicista nelle intenzioni dell’Accademia destinato a sostituire nelle simpatie dei vicentini il posto occupato prima da Cimarosa e poi da Rossini. Conclusa la stagione d’inverno/primavera 1846/47 s’imponevano con urgenza lavori di restauro, eppure a causa degli alti costi alla votazione degli accademici ben ventuno si mostrarono contrari e solamente sei favorevoli. Il successivo mese di maggio i lavori non erano più rinviabili e fu eletta l’apposita commissione che si sarebbe dovuta occupare di tale impegno. Un’urgenza che venne presentata come inderogabile, o forse precauzione motivata dalle sollevazioni che preluderanno ai moti del ’48. In quell’anno si svolsero le fatidiche giornate del Risorgimento e l’Eretenio per restauri, l’Olimpico per inerzia e il Berico per ordine pubblico, vennero chiusi. Placati gli animi si procedette con l’adeguamento delle strutture e per la progettazione ci si rivolse ancora una volta a Venezia con i fratelli Tommaso e Giovanni Battista Meduna, gli stessi che avevano curato la ricostruzione del Gran Teatro La Fenice dopo l’incendio. Il progetto dei Meduna mirava a togliere alla sala le caratteristiche settecentesche create per un melodramma che oramai apparteneva al passato. S’intervenne nella parte riservata al proscenio, vennero rimosse le colonnette volute dal Mauri e il piano del palcoscenico fatto arretrare per lasciare maggior spazio alla platea. Sempre da Venezia i Meduna chiamarono il pittore Sebastiano Santi per la decorazione, spariva il bianco e oro e gli ornamenti a stucco, la nuova sala si mostrava con colori festosi, allietata da mazzi di fiori ed amorini. Nel 1851 i lavori di ampliamento del palcoscenico non erano ancora terminati, ma si volle egualmente riaprire con I masnadieri di Verdi. Gli animi, però, si erano tutt’altro che placati, in vari modi veniva espressa una sempre maggiore insofferenza nei confronti della corona d’Austria. Il teatro visse quegli anni risorgimentali con lo spirito ribelle e battagliero dei patrioti vicentini, acuendo la propria funzione di luogo di confronto. L’opposizione alla dominazione straniera si manifestava sovente durante gli spettacoli teatrali, come il 5 gennaio del 1857 in occasione della visita in città dell’imperatore Francesco Giuseppe e della consorte Elisabetta di Baviera, invitati ad assistere a una recita de I Lombardi alla prima crociata. La prima stagione lirica postunitaria 1866/67 fu ancora una volta nel nome di Giuseppe Verdi: La traviata e Un ballo in maschera. Dalla stagione di Carnevale del 1882/83 la direzione dell’Eretenio fu tra le prime in Italia ad aprire le porte al nascente Verismo in musica, sia di scuola francese sia italiana, iniziando con Carmen di Bizet e Mignon di Thomas. Grande evento in occasione della serata di gala del 14 marzo 1883 con la presentazione del sistema Edison per l’illuminazione elettrica, per la prima volta nei locali di un teatro italiano. L’Eretenio si poneva all’avanguardia per i titoli proposti, la presenza di artisti, la grandiosità degli allestimenti, per la sua orchestra e coro. Dopo tanta popolarità seguì il declino, per i costi elevati delle produzioni e i problemi finanziari legati alla gestione. Spettacoli via via sempre meno adeguati e soprattutto la concorrenza della nuova struttura a Campo Marzo, il Teatro Comunale poi Verdi, che richiamava un pubblico numeroso. L’Eretenio si trovò progressivamente a non essere più considerato al centro dell’attenzione della cittadinanza e dovette accontentarsi a ospitare quasi unicamente spettacoli di prosa. La presidenza era indebolita e non all’altezza per affrontare il difficile momento. I nobili oramai costretti a frequentare il “teatrone” in Campo Marzo si mostrarono insofferenti a questa limitazione e si rivolsero con insistenza alla presidenza per poter usufruire nuovamente del tradizionale Eretenio e di riappropriarsi dei comodi palchetti, dove allo spettacolo si univa il piacere dell’eleganza. Le problematiche si facevano sempre maggiormente pressanti e per la stagione 1890/91, nonostante il desiderio di tornare all’abituale conforto, a causa delle intense proposte del Comunale che vantava un bilancio in pareggio, i proprietari delle logge si rassegnarono ad abbandonare la storica sede, pur di non pagare il canone annuo. La tradizione dell’Eretenio, la sua acustica pressoché perfetta, convinsero gli orchestrali e il coro per la stagione 1892/93 a costituirsi in cooperativa e a proseguire le attività in campo musicale con Rigoletto, La traviata e l’acclamato Amore di un angelo del vicentino Andrea Ferretto. Tra l’Eretenio e il Comunale ribattezzato Verdi si definì un tacito accordo, le stagioni estive si sarebbero svolte nella nuova grande sala, quella invernale all’Eretenio perché facile da riscaldare. Con lo scoppio della Grande Guerra il Verdi sarà requisito dal Ministero, chiuso, dichiarato inagibile e demolito. Al termine del conflitto le stagione all’Eretenio ripresero con favore del pubblico e sembrava che tutto procedesse per il meglio, ma era l’Accademia ad essere entrata in affanno e nella seduta del 16 dicembre del 1920 si prese atto delle condizioni precarie in cui versava il teatro di loro proprietà e nel timore di una spesa eccessiva se ne ipotizzò la vendita. In diversa opzione, venne preso in considerazione un nuovo intervento di riattamento per renderne agevole la frequentazione ed incrementare gli incassi, a condizione che il costo risultasse contenuto. Venne chiesto un preventivo a Marco Dondi Dall’Orologio, lo stesso architetto che vi aveva già lavorato l’anno precedente riducendo il boccascena per ampliare la platea e a cui si dovrà nel ‘22 il disegno di ricostruzione del Verdi. L’importo venne stimato in 385.000 lire e nel 1922 in concomitanza con la riapertura del riedificato Teatro a Campo Marzo, l’Eretenio chiuderà per i lavori necessari, per riaprire quattro anni più tardi con Andrea Chenier di Umberto Giordano. Erano stati annunciati radicali cambiamenti, fra cui rifare l’interno perché di legno, ma se ci si limitò a ripulire l’atrio e le scale, ciononostante la sala tornava a risplendere nella sua esuberante decorazione. Le file dei palchi erano due e due le più capienti gallerie. Le stagioni si ridussero sempre con maggiore detrimento, così come la qualità degli spettacoli. Il 14 febbraio 1935 si apriva la stagione lirica con Cavalleria rusticana e Pagliacci; nel 1936 in cartellone un’unica recita di Lucia di Lammermoor e in febbraio Il trovatore, a cui seguirono spettacoli di prosa. Il teatro fu chiuso quello stesso anno per un pretestuoso, ulteriore intervento di manutenzione, ma in realtà i titolari della disciolta Accademia erano in cerca di un acquirente per liberarsi delle spese di mantenimento. Nel 1940 la struttura venne ceduta al Comune di Vicenza. I lavori di ripristino affidati al Dopolavoro Vicentino e ad impresa quasi conclusa venne annunciata la stagione di riapertura, così come riportava “Il Popolo Vicentino” intitolando «Il cartellone del Teatro Eretenio», in cui si annunciava che dopo i restauri il Teatro sarebbe stato inaugurato con Falstaff e Carmen. La sera del 2 aprile 1944, alle 21,30, le bombe lanciate dagli anglo-americani sulla città colpirono anche l’Eretenio, parimenti al Verdi. Non fu fatto nulla per recuperare ciò che la furia bellica aveva distrutto e negli anni ’50 se ne decise l’abbattimento. Quel che rimane ancor oggi visibile in Contrà delle Grazie è ben poca cosa: parti delle fondazioni, della facciata e l'ingresso del loggione. Il conte Giovanni da Schio raccolse i frammenti della scultura del dio Ereteno con l’iscrizione «nunc urior unda», che furono ricomposti sul muro verso il giardino del Teatro Olimpico.
Il Politeama Nuovo – Teatro Verdi a Campo Marzo
Erede speculativo di un anfiteatro progettato dal Bibbiena e riproposto nei secoli, è il Teatro Verdi. Seguendone l’estrazione e prendendo come riferimento Campo Marzo, la genesi si potrebbe idealmente ricollegare all’antico, alla tradizione dell’Accademia Olimpica di riservare ai cittadini e agli ospiti “stranieri” corse di cavalli o di bighe, come avveniva negli antichi anfiteatri. Campo Marzo è la più vasta area pubblica di Vicenza, il cui nome trae origine dal gergale “marso”, cioè una zona “marcia”, allagata dalle piene dell’attiguo fiume Retrone. Del 1576 a Campo Marzo è il “Circi”, summa di teorica teatrale di Andrea Palladio, precedente di qualche anno al progetto dell’Olimpico. L’anfiteatro rispecchiava la tradizione classica dei teatri romani, realizzato in legno era composto in parti mobili, quando non in uso custoditi nei magazzini del Comune, così da poter essere smontato e riassemblato: «un anfiteatro circolare in legno con una pista, intorno alla quale correvano i cavalli mentre gli spettatori si accalcavano in alcune logge aperte tutto all’intorno della pista e sopra alcune gradinate, come nei teatri classici». L’attività venne interrotta in varie occasioni e principalmente a causa dell’epidemia di peste del 1630. Gli spettacoli ripresero nel 1732 con la corsa de’ Berberi nel nuovo impianto sportivo, replica del progetto originario. L’Anfiteatro venne definitivamente smantellato nel 1788 in seguito a una ordinanza emanata dal Consiglio dei Dieci a causa di un grave incidente durante una furiosa tempesta che causò «rovina immensa di legni» e vittime. Al 1752/54 risale “La Cavallerizza dei nobili”, costruita su progetto di Enea Arnaldi membro dell’Accademia Olimpica, un'elegante costruzione in stile classico con facciata a nove arcate sormontata da un attico. Nel 1828 si volle riportare la tradizione cinquecentesca realizzando un nuovo anfiteatro a cura di due fratelli vicentini, Angelo e Nicola Faggian, inaugurato quello stesso anno; l’organizzazione degli spettacoli venne affidata all'impresario Martino Pamato. La consuetudine di un anfiteatro in Campo Marzo si rigenererà con sempre rinnovate proposte e conformazioni architettoniche, nel giugno del 1851 si discuteva per una ricostruzione di un teatro diurno su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Berti, sempre nello stesso luogo «ove esisteva un teatro di simile natura», realizzato e inaugurato l’11 maggio del 1828. Nel 1869 un gruppo di cittadini, costituito in Società per l'organizzazione annuale delle corse di cavalli, ottenne dalla Giunta l’approvazione del progetto per creare una struttura a forma di circo che «per curve ed ampiezza fosse consimile a quello del Prato della Valle in Padova». Nella tradizione del Campo Marzo tra il 1886 e il 1887 avvenne quella trasformazione che muterà il vecchio edificio, che era stato gestito dall'impresario Martino Pamato, convertendolo da grande arena popolare a permanente teatro lirico. Divenuto proprietà del Comune nel 1871, dopo l’Unità d’Italia e Roma capitale, venne coperto e ampliato con direzione dei lavori dell’ingegnere Giovanni Barucco ed il Teatro Comunale venne inaugurato il 4 settembre 1872 con La favorita di Gaetano Donizetti. Divenne così il terzo palcoscenico di Vicenza, dopo l’Olimpico e l’Eretenio, a cui si potrebbe aggiungere il Berico ancora in attività. L’impresa, anche in questo caso, non riscosse unanime concordia e fu accolto da critiche severe: «Il teatro era di una solenne e cupa bruttezza ma ampio e comodo e con una acustica buona». A cavallo tra i due secoli il Comunale proseguiva in arrestabile ascesa, nel 1901 a seguito dell’emozione per la scomparsa di Giuseppe Verdi, si volle intitolarlo al celebre compositore. Con il nome di Politeama Comunale Verdi, poco alla volta l’attività in campo lirico cominciò a insidiare il primato del sino ad allora indiscusso Eretenio, in costante crisi a fronte di produzioni dispendiose. Il Politeama Comunale si prestava a una spettacolarità confacente alle rinnovate necessità di fine Ottocento-inizio Novecento, potendo vantare di un grande palcoscenico e di elevata capienza che permetteva un incasso sostanzioso e spese adeguate per soddisfare un pubblico sempre maggiormente esigente; la gloria del Verdi cresceva di stagione in stagione. Per una convivenza tra le due strutture teatrali vicentine si stabilì un compromesso, la stagione estiva si sarebbe svolta nel più capiente Verdi, mentre quella invernale all’Eretenio, facile da riscaldare. Ciononostante, il gradimento di cittadini e visitatori era sempre maggiormente rivolto alle imponenti messe in scena e cantanti tra i più conosciuti ospitati sull’ampio palcoscenico di Campo Marzo. Nei primi decenni del secolo la direzione dovette conformarsi nella programmazione alle mutate richieste del pubblico, sempre più lontano dal repertorio del glorioso Ottocento con scarsa frequentazione della sala, maggiormente appassionato, facendo registrate il tutto esaurito alle nuove proposte, trionfando Giacomo Puccini i cui primi lavori richiamavano un «pubblico fioritissimo». Nel 1908 fu ancora il Verdi ad esporsi, questa volta con Wagner, presentando il 17 agosto La Walkiria diretta da Tullio Serafin con settantacinque professori d’orchestra. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, con le recite de Il barbiere di Siviglia di Rossini, il Verdi poneva termine alla sua attività, requisito dal Regio Esercito venne utilizzato come magazzino. La struttura ne fu a tal punto danneggiata che terminato il conflitto, dopo un tentativo di recupero, se ne decise l’abbattimento. Nel 1922 la Giunta, intenzionata a dare nuovo impulso alla vita teatrale, s’impegnò per la ricostruzione su progetto dell’architetto Marco Dondi Dall’Orologio, lo stesso che aveva lavorato al restauro dell’Eretenio. Si diede inizio alla ricostruzione del Verdi, la nuova sala era capace di duemila-duecentottanta posti e si presentava a ferro di cavallo con due gallerie e loggione ad anfiteatro, molto simile a quella della platea del Teatro Olimpico. Nel nuovo spazio era presente la fossa per l'orchestra che poteva ospitare più di settanta musicisti. Il palcoscenico era alto diciotto metri, largo ventitré e profondo diciannove metri, con diciassette camerini. La nuova struttura venne inaugurata il 16 settembre 1923 con Otello di Giuseppe Verdi e negli anni a seguire la vita musicale vi si svolse con regolarità. Il Teatro Verdi restò in funzione fino al 1944, quando la sera del 2 aprile, alle 21,30, un bombardamento anglo-americano lo distrusse, parimenti all’Eretenio distante appena quattrocento metri. Quel che ne resta sono le statue che erano poste sul cornicione, conservate nel giardino dell’Olimpico.
Teatro Comunale
A Vicenza, ferita dai bombardamenti, l’Olimpico restava quale unico teatro. La città privata dell’Eretenio e del Verdi sentiva la mancanza di un secondo e più accessibile palcoscenico dove celebrare con rinnovato orgoglio la vocazione culturale della città. La questione del nuovo edificio per spettacoli, però, non fu considerata prioritaria a fronte dei tanti problemi di carattere sociale. Del nuovo teatro si discuterà per ben sessant’anni e verranno esaminati trentasei tra studi e progetti, interpellando architetti tra i più competenti, con concorso che prevedeva vincoli condizionanti e di complessa attuazione. Nel 1969 l’Amministrazione comunale espose a Palazzo Chiericati dei modellini per consentire ai cittadini la scelta tra diverse proposte, quelle di Carlo Scarpa, di Franco Albini e d’Ignazio Gardarella, ma ancora una volta non si arrivò a soluzione. Seguirono altre idee, di un complesso commerciale-direzionale con annesso albergo nello spazio dove si ergeva il Verdi. Venne bandito un ulteriore concorso e tra i progetti esaminati vi fu quello del brasiliano Oscar Niemeyer, sempre in Campo Marzo, ma da edificarsi in un’area vincolata sin dal 1450 e ancora quello per un complesso multifunzionale dei Dalla Massara. Il tormentato argomento si trascinerà ancora per alcuni anni, tra propositi e revoche. Nel 1979 il Consiglio comunale approvò il progetto di Ignazio Gardella di un nuovo edificio teatrale nello stesso luogo dove era il Verdi, ma anche in questo caso le speranze vennero deluse. Si proseguì nell’impresa con gare d’appalto, eppure fu impossibile proseguire per problemi procedurali, a cui si aggiunsero critiche per l’utilizzo dello spazio di Campo Marzo, avversità e rivalità dei partiti e non ultima la bocciatura del Ministero. Nella primavera del 1985 venne individuata per la nuova struttura l’area di viale Mazzini e due anni dopo l’Amministrazione approvò la proposta dell’architetto Gino Valle, ancora una volta senza risultato. Nel 2001 la svolta e venne chiesto a Gino Valle di rielaborarne il progetto. Compiuta la bonifica del luogo, i lavori ebbero inizio nel gennaio del 2002 e finalmente nel novembre 2007 il Teatro Comunale era completato. L’edificio contiene due sale a gradoni, la maggiore da novecento-dieci posti e il ridotto da trecentottanta. Per l’esterno l’alternanza di ampie fasce a mattoni rossi con inclusione di pietra bianca richiama l’architettura formale della città. All’interno l’impatto è di poltrone rivestite di rosso con il nero della copertura interna. Per l’acustica il pavimento è in legno e sospesi i pannelli acustici. Dotati di attrezzature all’avanguardia i due palcoscenici, funzionale la fossa d’orchestra posizionabile a diversi livelli. Costituita la Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, l’inaugurazione è del 10 dicembre 2007 con un omaggio alle quattro arti: prosa, lirica, concertistica e ballo. Soci fondatori il Comune di Vicenza e la Regione Veneto.
VENEZIA
LA NASCITA DEL TEATRO A VENEZIA – Il TEATRO DEL PALLADIO
A Venezia la storia dei luoghi destinati allo spettacolo, nel crescente desiderio ed interesse per la recitazione, è un tutt’uno con la vita civile e culturale. Nella capitale della Repubblica già nel Quattrocento le sontuose feste sono rallegrate da vivaci pantomime, vere e proprie manifestazioni teatrali; affermate quelle in Campo di Santa Maria Formosa con teatri effimeri allestiti per le cacce o feste dei tori, eretti durante il Carnevale sino al 1802, anno in cui il primo governo austriaco deciderà di vietarli. Diversi i teatri provvisori nel XVI secolo, quello nella contrada dei Biriinaugurato nel 1508 con i Menaechmi di Plauto, attivo circa per venti anni e destinato al generecomico. Palcoscenici provvisori sono approntati tra il 1520 e il 1524 in Ca' Foscari a San Simeon, destinati a ospitare le principali compagnie cittadine: della Calza, degli Immortali e dei Valorosi. Eretti su palchi in fondamenta, con strutture mobili in portego e su galleggianti in Canal Grande, vi si davano commedie e balli; di quegli stessi anni è Il Teatro ai Crociferi, dove durante il Carnevale attori semiprofessionisti e buffoni tenevano esibizioni comiche. Del decennio successivo è il Teatro in Ca' Morosini a S. Marziale dove nella loggia superiore si eseguono rappresentazioni scolastiche, nel 1532 vi è documentata una commedia in latino con intermedi allegorico-moralistici. Altri palcoscenici nei cortili dei monasteri, nel XVI secolo le parrocchie si prodigano per qualificarsi quale centro aggregante, attrezzandosi per l’intrattenimento; si circoscrivono i campi con parapetti e transenne, si erigono i soleri, teatri temporanei a pagamento in uso per pochi giorni, oppure qualche anno o decennio. S’intensificano le attività per cerimonie, visite di principi e di ambasciatori, ingressi trionfali, matrimoni del patriziato, ogni evento è occasione per quella “spettacolarizzazione” che segnerà il proliferare delle sale da spettacolo, determinando lo sviluppo del sistema dei teatri d’opera pubblici e l’affermazione del melodramma. Di consuetudine è inalzare palcoscenici illuminandoli con due candelieri appoggiati agli stipiti, dove i giovani ambiziosamente ed i loro familiari si esibiscono al cospetto di un popolo che assiste ammirato. I generi di spettacolo si diversificano pur sempre nell’intenzione celebrativa della grandezza della Repubblica, le stesse momarie, caratteristiche mimiche in maschera, sono inneggianti all’imperitura gloria della Serenissima. Si affermano gruppi di giovani del patriziato con le distintive Compagnie della Calza, dalle calze colorate che diversificano le congregazioni, affermazioni del più sfrenato edonismo dei partecipanti, vincolati a statuti ferrei e regole gelosamente segrete. Lo scopo di tanta vivacità è «per rendere più pompose le feste, gli spettacoli o altre giullerie e divertimenti, a' quali la Città fu sempre inclinata». Esibizioni su tavole improvvisate o palchi riccamente addobbati a segno dell’opulenza del committente, allestiti in gara tra gli esponenti del patriziato in attestazione di primato, prosperità e potere. Nel frattempo vanno imponendosi le facciate dei palazzi con all’interno cortili e ampi spazi, costruzioni concepite per ospitare rappresentazioni, dove la grande sala centrale ha funzione di ambiente teatrale, organizzata appositamente per commedie ed eventi musicali, con tale rilevanza da caratterizzare la stessa architettura della tipica residenza veneziana. Si spazia dalla commedia, alla parodia letteraria, dialoghi giocosi e scene tragiche: a Ca’ Pesaro degli Orfei, palazzo/teatro attivo per più stagioni, il 9 febbraio 1514 si rappresenta la commedia Miles gloriosus di Plauto con la Compagnia degli Immortali e nel 1521 in onore del principe di Bisignano trionfano i testi di Ruzzante. Nei Diarii di Marino Sanudo si legge che il giorno 11 di febbraio del 1525 alcuni «savii» del maggior consiglio si recarono in Ca’ Arianni «a veder provar una comedia» di Angelo Beolco detto Ruzante, per l'adunanza dei «compagni Triumphanti», un gruppo della Calza formato dai rampolli delle famiglie più autorevoli, fattore che rendeva assai problematica una qualsivoglia azione censoria. Nell’occasione si era accalcata una folla all’incirca di trecento spettatori, a conferma della vasta partecipazione nella dinamica del sistema teatrale di un pubblico sagace quanto licenzioso nel dilettarsi ascoltando gli attori esibirsi nel linguaggio di Ruzzante, reputato da altri scandaloso a causa di «parole sporche». Nel 1536 venne scritta da anonimo la celebre commedia La Venexiana, testo in cui è insita la sensualità e libertà espressiva di quel pubblico, costringendo il Magistrato delle Pompe ad intervenire con proibizioni «ai nobili gestori» per l’uso di un linguaggio inadeguato al decoro pubblico. La Repubblica cercherà ripetutamente di arginare un fenomeno che si dimostrerà inarrestabile nell’impossibilità di regolamentare le feste e le «hinonestissime comedie»; già nel 1508, il Consiglio si era pronunciato in materia, emanando una condanna sull'abitudine a rappresentare lavori scenici sia in privato, sia in luogo pubblico, con commedianti in maschera abituati ad esagerare nell’esibirsi, divieto che non sarà mai abrogato sino a Seicento inoltrato. Il Governo tollerava il teatro, ma faceva ben poco per far applicare le norme di censura nei confronti degli spettacoli per opportunità, tenuto conto dell’attrazione che questo esercitava attirando a Venezia molti visitatori con buoni affari; inoltre la dimensione festiva della città era predominante e la passione per la rappresentazione vincente su ogni interdizione. Tra i più noti esempi di palazzo/teatro veneziano vi è quello nel 1565 allestito nel cortile di Ca’ Dolfin a Rialto, di cui si è smarrita la memoria, se non con supposizioni; nel marzo del 1541 la Compagnia dei Sempiterni incarica Tiziano per l’allestimento di un ricco apparato iconografico in campo Santo Stefano, attrezzato con tribune in occasione di una festa di Dame e Cavalieri; nel Carnevale del 1542 viene commissionato a Giorgio Vasari un teatro nel Palazzo dei Gonella con impianto scenico in una «stanza grandissima» per la Talanta di Pietro Aretino, esempi che non possono che essere considerati gli archetipi dello spazio pubblico destinato allo spettacolo. La diffusione della commedia impone alla Serenissima di preoccuparsi dei luoghi deputati alle rappresentazioni e viene commissionato il primo vero e proprio teatro pubblico di Venezia, affidandone la realizzazione nel 1565 ad Andrea Palladio, che ricevette l’incarico dalla Compagnia della Calza degli Accesi nell’atrio del Monastero della Carità, edificato in forma semicircolare: «il teatro di legname a somiglianza di mezzo Colosseo di Roma», l’apparato scenico è affidato Federico Zuccari. La sera del 28 febbraio vi si rappresenta la tragedia Antigono di Conte di Monte e per il solo ingresso era dovuto il prezzo di mezzo ducato: «S'appresentò una Tragedia così fattamente, che in questa parte non si hebbe ad haver punto d'invidia a gli antichi. Percioché il teatro fu capacissimo di molte migliaia di persone». La realizzazione del progetto dovette essere difficoltosa se il celebre architetto ebbe a commentare: «Ho finito di fare questo benedetto teatro, nel quale ho fatto la penitentia de quanto peccati ho fatti et sono per fare». In Senato si accende il dibattito se preservare o meno la struttura, sono gli anni della Controriforma e nelle decisioni della Repubblica incidono le pressioni dei Gesuiti che si mostrano inesorabili sul volere che l’edificio del Palladio non si trasformi in struttura stabile, bensì venga demolito come d’uso per i palcoscenici effimeri; dopo otto anni di dispute i religiosi ne ottengono la chiusura, ma non fu smantellato per l’opposizione di rappresentanti del patriziato. Agli inizi del Seicento il Teatro del Palladio venne riaperto, affidandone la ristrutturazione all’architetto Sebastiano Serlio che vi apportò tutte quelle modifiche che si erano ritenute necessarie alle rinnovate esigenze «della scena tragica». La notte del 6 novembre 1630 un incendio lo distrusse completamente e dell’edificio si è persa ogni traccia. In epoca barocca i palazzi a Venezia si distinguevano con accresciuta magnificenza quali luoghi della musica, tra cantate e serenate allegoriche, mentre andava sempre più affermandosi l’opera in musica di carattere celebrativo. Commissionato da Girolamo Mocenigo a Claudio Monteverdi il madrigale «in genere rappresentativo» Il combattimento di Tancredi e Clorinda su testo di Torquato Tasso, eseguito nell’aprile 1630 per una festa al palazzo affacciato sulla Riva degli Schiavoni già dei Dandolo in occasione delle nozze tra sua figlia Giustiniana con Lorenzo Giustinian. Un evento di teatro musicale a suggello di una strategica alleanza tra casati, con di tale sfarzo che per contenere le macchine teatrali si rese necessario lo sfondamento di un soffitto, favorendo la realizzazione di un apparato scenografico adeguato alle funzioni di vero e proprio spazio teatrale. Il caso Mocenigo testimonia la volontà di alcuni patrizi di proporre eventi musicali non occasionalmente, bensì di costruire una precisa continuità d’azione, atteggiamento condiviso tra quelle famiglie che fondarono i primi teatri avvalendosi di una stagione con programmazione stabile. L'entusiasmo dei veneziani, infatti, portò ben presto all'apertura di teatri pubblici, le rappresentazioni non erano più un evento privato e le ricche famiglie iniziarono a finanziarne la costruzione affinché le opere fossero date in pubblico; anche questa era una maniera di dimostrare la loro ricchezza, tramite la fastosa architettura dei luoghi e la maestosità degli spettacoli, inoltre facendo pagare l’ingresso e trasformando l’impresa in fonte di reddito. Ne deriverà un fenomeno dagli sviluppi imprevedibili quando, con la nascita delle prime sale pubbliche, tra i nobili si accenderanno rivalità esacerbate pur di assicurarsi il controllo di un palco ad immagine del proprio rango, non escluso il duello, dispute per le quali sono ricolmi gli archivi giudiziari. In una lettera del 1610 Giovan Battista Andreini consiglia il suo protettore Vincenzo I Gonzaga di «non fare carnevale in Venezia», l'attore scrive che è meglio partirsene da Venezia «per le grandi controversie che sono in campo, colpa ognuno di voler palchetti, che già per questo molti nobili si sono nemicati». I teatri a Venezia da fine Cinquecento/inizio Seicento nascono e si moltiplicarono richiamando artisti e spettatori dalle Terre del Leone di San Marco e da tutta Europa, così che Venezia prevalse a punto di riferimento nell’evoluzione della storia di palcoscenico: da effimero in strada, nei palazzi/teatro, con vere e proprie sale per spettacolo. In particolare per il teatro in musica che ben presto, facendo proprio il fiorentino recitar cantando, si affermerà in città con produzioni del tutto peculiari e in luoghi specifici; negli anni in cui nei Domini di Terra si attesta il richiamo alla classicità, nella città lagunare si afferma l’innovativo teatro alla veneziana.
I TEATRI MICHIEL E TRON (il vecchio il nuovo, il nuovissimo) a SAN CASSIANO
L’esigenza di uno spazio teatrale aperto al pubblico a Venezia non nasce su iniziativa di un gruppo d’intellettuali legati all’istituzione accademica, così come a Vicenza e a Verona, bensì da un impegno con fini di profitto dell’aristocrazia cittadina per supplire ai mancati introiti di un’attività commerciale non più redditizia: dal mar alla terra. Per poter contare su di un palcoscenico stabile bisognerà attendere la seconda metà del Cinquecento e sino al 1636 per il primo teatro dedicato esclusivamente al melodramma, aperto a un pubblico pagante. In alternanza tra divieti e concessioni, l’autorità di controllo acconsente nel secondo Cinquecento alla realizzazione di due teatri nella contrada di San Cassiano: il “teatro vecchio” dei Michiel, e il “teatro nuovo” dei Tron. In Venetia città nobilissimadel 1581 di Francesco Sansovino si legge: «sono (...) due Theatri bellissimi edificati, con spesa grande, l'uno in forma ovata et l'altro rotonda, capaci di gran numero di persone; per recitarvi ne' tempi del Carnevale, Comedie, secondo l'uso della città». Del secondo a San Cassian si hanno scarse notizie, se non che appartenesse alla nobile famiglia Michiel, ricavato dal 1580 in prossimità del Canal Grande su di un’area di circa venti metri per venti e di forma classicheggiante «rotonda - a guisa di un anfiteatro», con platea a gradoni in legno a formare una cavea e con dotazione d’innovativi palchetti. Risale al marzo 1582 la dichiarazione di decima di Alvise Michiel di Pierantonio e dei suoi fratelli in cui viene inoltrata la supplica al Consiglio a seguito di una delle tante disposizioni restrittive con intimazione di chiusura del loro teatro: «Un luogo fabricato già un anno per recitar comedie, le quali essendo state prohibite con le strettezze note ad ognuno poca speranza si può havere di trarne più alcun utile, però le Vostre Signorie Eccellentissime Signori X Savii, terminino in tal proposito quello che alla prudentia et pietà loro parerano, havendo in consideratione la molta spesa già fatta senza alcun utile per la prohibitione sopra ditta et l'interesse che habbiamo a tenir ad affitto due case per servitio delli comedianti». Successiva testimonianza nella lettera dell’attore Francesco Andreini, celebre per il suo volume Capitan Spaventa del 1607, dove si fa riferimento a un contratto della sua Compagnia de' comici Gelosi con il: «clar.mo Alvise Michiele, padrone della stantia di Venezia», contenente annotazioni sulla disputa dei patrizi veneti nel prendere in affitto i palchetti. Antonio Persio, medico e letterato materano, rilascia una testimonianza sul Teatro Michiel visitato nel corso della sua permanenza veneziana negli anni ’90 del Cinquecento: «Al tempo ch’io quivi dimorava si erano introdotte le comedie, in modo che per esse v’era stato fatto un edificio di gran spesa, a guisa di un anfiteatro, ove si riduceva quasi tutta la nobiltà, et v’erano nobili che pagavano i comedianti che dicessero le più grasse, per non dire più sporche cose che mai sapessero, et essi vi menavano poi le mogli et le figliole». Ben più famoso tra i due teatri citati nel resoconto di Francesco Sansovino è quello di San Cassian detto “teatrovechio” per distinguerlo da quello dei Michiel dal successivo “nuovo” o “nuovissimo” voluto dalla stessa famiglia. Datato intorno al 1570 «la stantia di Venetia» era stata allestita dietro il campanile della parrocchia da cui prese il nome. Voluto da componenti la famiglia Tron del ramo di San Benedetto, era stato ottenuto dallo sfondamento dei solai fra vari piani, sgombrando l’interno di un edificio e adattandolo alle esigenze delle rappresentazioni, una prassi diffusa in città al fine di ricavare spazi per la commedia, sia nel privato che nel pubblico. Il teatro si presentava a pianta “ovata” ovvero ellittica, inscritta in un lotto rettangolare con platea distribuita su un solo livello, circondata da un imprecisato numero di palchetti su due ordini; all’epoca s’impose quale il primo e successivamente si confermò il più importante luogo di rappresentazione a pagamento della città. Da una missiva di Ettore Tron al duca Alfonso II d’Este del 1581 emergono diverse caratteristiche dell’assetto del teatro, tra cui la pratica di affittare i palchi attraverso l’utilizzo di caparre versate anticipatamente all’apertura di stagione ed il contratto alla Compagnia dei Confidenti anteriore all’esibizione, attestante una programmazione artistica ben strutturata. In una lettera del 7 ottobre 1581 di Paolo Mori, agente del duca di Mantova da Venezia, si argomenta sui «palchi di quelli due loghi fabricati a posta» di struttura innovativa, in uno dei quali il Tron afferma di aver accomodato: «la mettà de Nobili di questa città». Tra fine Cinquecento e inizio Seicento si aprirono a Venezia numerosi altri teatri e il Consiglio dei X, preoccupato del proliferare delle nuove forme architettonico/teatrali del palchetto e dell’assidua frequentazione, per garantirne la sicurezza delibera che l’edificio debba essere: «forte e sicuro in modo che non vi possa succedere alcuna rovina» e di conseguenza nel 1585 sia il Tron di San Cassiano, sia il poco distante dei Michiel, sono chiusi essendo non adeguati alle norme di sicurezza. Riaperti, vi si svolgerà attività continuativa e nel Trattato de’ Portamenti di Antonio Persio del 1607, con riferimento a fatti avvenuti nel 1593, si attesta che nei due teatri i nobili «avevano affittato quasi tutti i palchi». Al San Cassiano le porte si aprivano per la stagione di Carnevale con assidua frequentazione dei rappresentanti dell’aristocrazia, i quali usavano cenare al lume del mocoletto, gettando in platea i resti di cibo, un uso che si diffuse nelle successive sale e permarrà nelle abitudini dei frequentatori nei palchi. In sala tra gli spettatori dell’epoca lo scrittore inglese Thomas Coryat, che nei suoi appunti di viaggio del 1608 farà una colorita descrizione delle sue esperienze veneziane essendosi recato in un teatro che giudica «miserabile e sordido» se paragonato a quelli inglesi «né gli attori reggono al paragone coi nostri per l'abbigliamento, la scena e la musica». È meravigliato dal vedervi recitare donne: «ed esse lo facevano con una tal grazia, vita, movimento e quant'altro mai s'acconcia ad attore, com'io vidi ognora fare ad attore maschio». Descrivendo il Coryat una sala dotata di uno o due ordini di logge, si presume si riferisca al San Cassiano dei Tron e le sue impressioni ci restituiscono un’immagine, se si vuole pittoresca, di alcuni degli aspetti di quella realtà non avulsa dai piaceri per i quali il Governo della Repubblica dovette più volte prendere provvedimenti, tra cui la presenza di elegantissime cortigiane con doppia maschera: «ma così travestite che nessuno poteva riconoscerle (…) una andava dalla fronte al mento e sotto il collo; l'altra con boccoli di roba lanuginosa o villosa che copriva il naso», mentre gli uomini «essi non siedono nelle balconate come succede a Londra (…) Tutti gli uomini siedono giù, nella platea o corte, ognuno sulla propria sedia per cui ha pagato una gazzetta». Nei teatri il pubblici si accede in maschera, come se fosse un abito «da tutti i giorni», prediletto dai veneziani quanto dai forestieri per i travestimenti, le avventure amorose e gli intrighi, assaporando nell’anonimato il piacere di una transitoria discrezionalità; nel Seicento se ne abusò a tal punto che il governo della Serenissima fu costretto a limitarne l’uso. Da quando la frequentazione delle sale assunse maggiore distinzione le maschere erano indossate anche dagli inservienti e da qui il termine, utilizzato tutt’oggi di maschera, degli incaricati per far accomodare il pubblico al proprio posto. Nel 1629 le fiamme riducono il San Cassiano «in cenere»; fu ricostruito rapidamente ma, dopo la chiusura a causa della peste del 1630/’31, fu distrutto nuovamente da un incendio nel 1633, mettendo fine alla sua attività. Nel 1636 i fratelli Ettore e Francesco Tron diedero comunicazione di voler aprire un nuova sala destinandola non più alla commedia, bensì all’opera: «Per l’indizio sopravenuto a’ questi M.ci M.ti da li NN.HH. Tron de S. Benetto circa l’intentione de aprir Theatro de musica qual se prattica in più parte per lo diletto de l’insigni pubblici». Ottenuto il permesso dal Consiglio di fare ricostruire il San Cassiano nella stessa contrada del precedente, ma verso Santa Maria Mater Domini nella corte oggi chiamata del Teatro Nuovo, questo venne completato in meno di un anno e chiesto il permesso di ospitarvi un’orchestra. Nel 1637 l’inaugurazione, per la prima volta nel mondo, con la rappresentazione di un dramma in musica in un teatro pubblico: Andromeda di Francesco Manelli su libretto di Benedetto Ferrari. Della struttura originale della sala del San Cassiano “nuovo” si hanno limitate testimonianze, se non che fosse dotata di centocinquantatré palchi, compresi quelli del pepiano (piano basso), con due ingressi alla platea, elementi confermati dalla descrizione di Jacques Chassebras de Cramailles nel settimanale Mercure Galant: «Le Théatre de S. Cassian est (…) à cinq rangs de Pales, et 31 à chaque rang». Francesco Bognolo in occasione del progetto settecentesco di rifacimento del San Cassiano annotò con scrupolo le misure del precedente edificio del 1637, riportandole nel trattato su Tutti li Teatri di Venezia, descrivendo che questo era di dimensioni ridotte, con boccascena di poco superiore agli otto metri e profondità di palcoscenico di sei metri e mezzo, i palchetti ristretti con larghezza variabile da circa novantacinque a centoventi centimetri, con il palco di rappresentanza posto al centro: il pergoletto di mezzo. Negli anni a seguire il repertorio comprese prevalentemente lavori di Francesco Cavalli e Claudio Monteverdi, accolti con favore dal pubblico con significativo contributo alla «nuova opera pubblica». Indifferente da ambizioni umanistiche, appariva nella città il primo teatro dedicato all’opera in musica, sancendo l’affermarsi dell’architettura “alla veneziana”, che sarà “all’italiana” con file di palchi a coronamento della sala, caratteristica architettonica che si propagherà ben presto in Italia e nelle corti di tutta Europa. Un impianto di carattere progettistico ed economico d’investimento delle famiglie patrizie, sistema dei palchi che assicurerà ai responsabili introiti considerevoli, tali da sostenete le spese di mantenimento della struttura, per la produzione di spettacoli e guadagno dei committenti defraudati dagli antichi “traffici”: «il soldo che si spendeva per divertirsi copriva in parte ai vuoti della mercatura». La parabola storiografica legata al San Cassiano tra fine Cinquecento e sino all’abolizione napoleonica della Repubblica Serenissima di fine Settecento si evidenzia nell’evoluzione della struttura teatrale, delle prassi esecutive, con assidua fruizione del patriziato veneto e dei numerosi rappresentanti della diplomazia che facevano a gara per aggiudicarsi l’affitto di un palco con funzione di spazio salottiero, nonché della gestione artistica tra le munificenze della proprietà e l’avidità degli incassi; nell’affermarsi della figura dell’impresario che si poneva da tramite e qualche volta in contrasto nella gestione artistica con il proprietario. Nel nuovo secolo con le prime di opere di Porpora, Vivaldi, Giuseppe Scarlatti, prenderà forma a Venezia il teatro dedicato al melodramma, con realizzazione d’impianti scenografici che segneranno l’evoluzione della prassi stilistica della messa in scena, assicurando la presenza di solisti di fama con amplificazione dei capricci divistici delle primedonne, accendendo una ribalta del tutto innovativa che segnerà l’avviarsi di un’epoca. Di tutto questo le due sale dei Tron a San Cassiano ne sono testimonianza, con almeno sei tra rifacimenti e ricostruzioni, non tenendo conto di progetti non realizzati. Le prime modifiche del “nuovo” risalgono al 1690, periodo segnato da momenti di gravi difficoltà economiche e gestionali; il teatro fu chiuso nel 1755, totalmente ricostruito nel 1763 a cura dell’architetto Francesco Bognolo, con decorazioni di Andrea Urbani, con ampliamento del palcoscenico di maggiore profondità per ospitare allestimenti con scenografie articolate che potessero rivaleggiare con la concorrenza degli altri numerosi teatri nel frattempo costruiti. La concorrenza si faceva pressante e si dovevano compiacere le esigenze degli spettatori, soprattutto dei frequentatori dei palchi, strutture che nel precedente edificio risultavano “anguste”, che saranno concepite nella ristrutturazione di maggiore ampiezza, assicurando il miglior conforto. Per l’inaugurazione del rinnovato San Cassiano dei Tron nel 1763 in scena La morte di Didone con musica di Antonio Tozzi su libretto di Giuseppe de Kurtz e Giovanni Bertati. Causa la posizione periferica vicina alla zona dei lupanari delle Carampane, il teatro fu mal frequentato e delle abitudini scandalose nella sala ne accenna Giacomo Casanova nel 1763: «donne di malavita e giovinotti prostituiti commettono ne’ palchi in quarto ordine que’ delitti che il governo, soffrendoli, vuole almeno che non sieno esposti all’altrui vista». Nel 1765 venne ridecorato dal pittore tiepolesco Giustino Menescardi; a fine Settecento il drammaturgo e poeta Leandro Fernández de Moratín aveva assistito a Venezia a una cinquantina di rappresentazioni in diversi teatri e nel suo Viaje de Italia farà un resoconto degli ultimi anni di vita del San Cassiano: «questo teatro è il più antico di Venezia; la sala ha una forma di una racchetta, molto stretta verso i proscenio: ha sei ordini di palchi e questo ci fa capire come sia necessaria un’altezza enorme. Nella platea ci sono sedili di legno, come negli altri e una specie di barriera vicino alla porta, che lascia uno spazio angusto e stretto per la gente che vuol restare in piedi, obbligandola in tal modo ad andare a sedersi. Intelligente trovata. Alcune decorazioni nuove erano abbastanza buone, la compagnia pessima (…)». L'ultimo piano venne chiuso nel 1798, pertanto dei cento novantasette palchi costruiti ne rimasero aperti solo centosessanta quattro; nell’ultima stagione vennero presentate due opere La sposa di stravagante temperamento: «La Musica è del Signor Pietro Guglielmi Maestro di Capella Napolitano. Il Scenario sarà tutto d’invenzione e direzione del Signor Luigi Facchinelli Veronese» e Gli umori contrari, musica di Sebastiano Nasolini e libretto di Giovanni Bertati. Pur sopravvissuto a stento alla caduta della Serenissima, i francesi ne decretano la chiusura definitiva nel 1805 e nel 1812 Napoleone emise il decreto di demolizione, parimenti al Teatro Sant’Angelo. Nel 2037 ricorrerà l’anniversario dei quattrocento anni dall’inaugurazione del Nuovo San Cassiano dei Tron e si concretizza l’intenzione del musicologo e imprenditore inglese Paul Atkin di ricostruirlo così come era nel 1637, dotato di macchinari di scena d’epoca e scenografie mobili. Mediante sofisticate tecnologie il gruppo di lavoro incaricato al progetto ha ridisegnato la sala con le proporzioni originali, di venti metri di larghezza per trenta di profondità, con capienza di quattrocento-cinque persone, palchetti larghi un metro e una platea di sei file, ridefinendo l’antico arco di proscenio, le colonne composite laterali e la facciata superiore. Il luogo dove era stato edificato a Santa Croce vicino alle Carampane non è più disponibile, quindi verrà innalzato nel retro di Palazzo Donà Balbi in Riva de Biasio sul Canal Grande. Un simile obbiettivo non poteva che essere preceduto da un’attenta ricerca storico/architettonica e di costume, con finalità di ricreare un teatro d’opera seicentesco, che si ponga quale punto di riferimento per la ricerca e lo studio dell’opera barocca.
IL TEATRO ALLA VENEZIANA
A partire dal 1637 l'opera in musica s’impone come genere di prestigio in un sistema produttivo reso a Venezia particolarmente fiorente. Nella città lagunare da trattenimento aristocratico con fruizione privata, il dramma cantato è accessibile a ogni spettatore pagante, con notevole incremento della produttività teatrale, tanto che nel corso del Seicento saranno attivi a Venezia, in tempi diversi, sedici teatri di cui sei dedicati all'opera in musica, che diverranno dodici per la sola opera. Nel XVIII secolo la Serenissima è all’apice del suo dinamismo culturale, la gente vive elegantemente e con raffinatezza, le ricche famiglie veneziane non investono più in palcoscenici relegati alle sale dei loro palazzi, preferendo capitalizzare nella costruzione di teatri che restino di loro proprietà, gestiti in proprio o affidati ad impresari, affinché il melodramma sia rappresentato avanti a un pubblico. Era il modo di dimostrare la propria ricchezza tramite la fastosa architettura dei luoghi e la maestosità degli spettacoli e allo stesso tempo trarne profitto con la cospicua rendita degli ingressi. I nobili Grimani sono la famiglia a cui si devono ben quattro teatri d’opera tra i più importanti del XVII e XVIII secolo. Non tutto a Venezia appariva, tuttavia, quale novità assoluta, come l’impiego di quegli spazi suddivisi in piccole logge sviluppati in altezza e avvolgenti lo svolgimento curvilineo della sala: il palco, il cui godimento diverrà segno di distinzione. Eppure è proprio dalla capitale della Repubblica che questo modello di teatro si affermerà propagandosi quale stile inequivocabile, affermandosi nel pieno consenso e partecipazione del pubblico cittadino e dei tanti stranieri, nel particolare contesto sociale ed economico della città, dalla notorietà e potenza evocativa del suo territorio. Il sistema teatrale a Venezia sin dagli esordi non fu immune da problematiche di carattere censorio, sia politico che religioso; dal 1508, quando il Consiglio dei X si era trovato per la prima volta ad emanare una legge sull’organizzazione degli spettacoli, la Repubblica si era trovata costretta ad intervenire più volte per regolamentarne gli eccessi, con divieti severi allo scopo di arginare episodi ritenuti deplorevoli. Luoghi di produzione e di svago i teatri erano condannati dalle autorità quali ambienti di dissolutezza, disponendone spesso la chiusura. Il Consiglio nel 1581 rinnovava il divieto di messa in scena di lavori licenziosi, con conseguente interruzione delle attività e conseguenze a tal punto rovinose che due anni più tardi, su pressioni dei nobili proprietari, la risoluzione dovrà essere modificata concedendo deroghe, pur sottoponendo le attività a severe regole: «Che sia data licentia a quelli che recitano comedie di poterle per XV giorni solamente recitar in questa città, con conditione espressa che esse siano finite alle quattro hore di notte al più, dovendo anco esser recitate con ogni modestia e honestà». La disposizione si occupava, inoltre, del fenomeno dilagante delle “piccole logge”, sia per ragioni di sicurezza, sia di morale: «che siano stati tutti li palchi del luoco aperti dalla parte da driedo, et traversati con cantinelle, in modo che ciascuno che passerà, possi veder per dentro di essi palchi». Inizialmente nella sala non vi erano lampioni né lampade e prima d’iniziare si accendevano ai lati della scena dei lucignoli a olio posti in cima a delle torce di legno che, una volta iniziato lo spettacolo, venivano spenti per mettere in evidenza i lumi posti in ribalta esaltando la scena, mentre i professori d’orchestra si dovevano accontentare del chiaroscuro di alcune candele di sego. La luce che trapelava dai palchetti era gestita dagli affittuari, da dove si gridava per lodare o biasimare gli artisti di palcoscenico, vere e proprie tifoserie, con risate, miagolii da gatto e rumorosi colpi di tosse, oltre a qualsiasi altra espressione di elogio o disapprovazione. Negli intervalli o durante l’esecuzione d’Intermezzi irrompevano i venditori d’acqua col mistrà, aranci, mele, pere cotte, frittole, mentre nei palchi si cenava ed i giovani appartenenti al patriziato si divertivano gettando mozziconi di candela sulla testa del popolo sottostante; appunterà un viaggiatore francese: «d’y faire voller des lumignons de chandeles». Col tempo i palchi verranno arredati come salottini privati e sovente il diritto d’affitto era trasmesso da una generazione all’altra, come se fosse un bene in successione ereditaria; se ce ne fosse stata convenienza, i detentori si mostravano disponibili a ospitare rappresentanti di delegazioni straniere, incaricati e diplomatici. I teatri si aprivano al pubblico verso la metà di ottobre e le sale si trasformavano in eleganti ambienti luminosi grazie ad ingegnosi marchingegni; nel Settecento con lampadari centrali come quello al San Giovanni Grisostomo, con maggiore magnificenza e per evitare che i fumi delle fiamme laterali danneggiassero gli ornamenti. L’irruenza del pubblico, però, restò sempre vivace, parteggiando a sostegno o detrazione per la celebrità del momento, con scherno e sarcasmo nel carattere sagace proprio dei veneziani, di commento e partecipazione agli avvicendamenti politici e patriottici di fine Sette e Ottocento. La particolare conformazione della sala a piccole stanze secondo la tradizione veneziana riscosse a tal punto il favore del patriziato che poterne usufruire era sempre più privilegio irrinunciabile. I nobili faranno a gara per aggiudicarsi il possesso di un palco, generando un fenomeno di costume e un flusso di denaro che costituirà la base sulla quale si svilupperà rapidamente il sistema teatrale veneziano. Lo storiografo dell’opera in musica Cristoforo Ivanovich annota nelle sue Memorie Teatrali: «Il più certo utile, che ha ogni Teatro, consiste negli affitti de’ Palchetti. Questi sono almeno in numero di cento, oltre le soffitte compartite in più ordini, e non tutti hanno lo stesso prezzo». I palchetti saranno considerati un bene di famiglia in estensione del proprio palazzo, chiusi a chiave di cui solo l’affidatario ha copia. Il rendimento di questo sistema si dimostrerà fondamentale nel processo di diffusione di nuovi edifici, contribuendo alla divulgazione in città dell’opera in musica; l’ambizione per il “nuovo” si tramuterà nei palchettisti in vere e proprie competizioni per aggiudicarsi il posto migliore, contribuendo alla costruzione di sempre nuovi teatri che potessero soddisfare l’ambizione di apparire alla moda del tempo. Per aggiudicarsi il palco gli aspiranti affittuari erano tenuti al versamento di un «regallo», una cifra preventiva di contribuzione alla fabbrica, oltre al versamento del canone annuale; il ricavato era essenziale per sostenere gli oneri affrontati dai costruttori, garantendo la prelazione nell’affitto del palco, ma non il possesso. Per questa ragione Venezia potrà contare su di una concentrazione di teatri unica al mondo, favorita dalla presenza di un pubblico cosmopolita, nell’incontro di artisti provenienti da ogni luogo, di stimolo per i compositori che ben presto andranno a formare quella scuola veneziana che s’imporrà con nomi illustri. Il Seicento vede la Serenissima al centro della vita teatrale europea e gli edifici da quartieri periferici «tra casacce diroccate e postriboli», prendono posto nel cuore della vita cittadina in spazi che potessero definirli con maggiore distinzione, sempre più svincolati dalla cattiva reputazione puntando, nel secolo delle meraviglie, alla sontuosità degli allestimenti d’opera in musica, con solisti che nell’arte del canto sbalordissero con le proprie acrobazie, perché è soprattutto la musica ad attrarre il gran mondo. Le sale si presentano perlopiù nella variazione della pianta a “U”: mistilinea o a campana, a racchetta o a ferro di cavallo, corredate da file di palchetti più o meno estese. Nel 1620 i fratelli Lorenzo e Alvise Giustinian promuovono un nuovo teatro a pochi metri da piazza San Marco e due anni dopo i fratelli Vendramin approfittano di un incendio che distrugge case e depositi di loro proprietà per far erigere «un magazzino over theatro, per recitar commedie». Poter contare su di uno luogo scenico definito, sulla disponibilità di attrezzature e di un rilevante ampliamento dell’offerta è, inoltre, lo stimolo per la definizione di quella che sarà la figura dell’architetto/scenografo, in precedenza ingegnere o pittore di scena, i quali contraddistinsero gli allestimenti del Barocco, più tardi determinando le innovazioni classico/romantiche. Scrive lo storico Carlo Antonio Marin sull’offerta veneziana: «I suoi spettacoli frequenti, come erano al maggior segno splendidi, così attraendo quantità d’estera gente ad ammirarli». I visitatori, al pari di diplomatici e corrispondenti, sono unanimi nel lodare la vita teatrale della città; del 1680 si legge in un diario di viaggio: «ove più si contrassegna Venezia fra tutte le città d’Italia è nella magnificenza e nell’eleganza dei Teatri». A Parigi è pubblicato il saggio dello storico e diplomatico francese Alexandre-Toussaint de Limojon de Saint-Didier intitolato De La Ville et la Répubblique de Venise: «(…) les Téâtres sont grands, et magnifiques, les décorations superbes et bien diversifiées». Una tale ricchezza non sempre corrispondeva a un adeguato atteggiamento del pubblico, a quella licenziosità dei costumi che si era invano tentato di arginare: «concorrono huomini et donne, giovani et vecchi; onde per la comodità, che hanno li tristi di suvertir l’incauta età de’ giovani, ne seguono infiniti inconvenienti contra l’honor del Signor Dio». L’uso improprio degli affittuari dei palchetti nell’approfittarsi della penombra sarà commentato da diversi ospiti ed analisti: «(…) la sua intensa vita notturna che consente che si continui a celebrare il rito della libertà e persino della licenza (…) riuscendo così a trasformare la festa in impresa e commercio». Sarebbe, però, distorto e limitativo connotare la frequentazione dei teatri a finalità sconvenienti, bensì vi ci si recava con sempre maggiore frequenza nel crescente gusto per lo spettacolo e le meraviglie che questo avrebbe potuto offrire a un pubblico esigente, quanto per apparire nel compiacimento dell’affermazione del proprio stato sociale ed il palchetto con il suo balcone assumerà la funzione di vetrina per guardare e per essere guardati. Al problema morale si somma quello della gestione, il successo degli impresari alimenta rivalità, si lamentano difficoltà nell’arginare le eccentricità dei cantanti i cui compensi sono eccessivi, i costi delle messinscena sempre più elevati, nella molteplicità delle proposte la crescente frettolosità per la realizzazione degli spettacoli va a detrimento della qualità. I rappresentanti delle famiglie del patriziato proprietari dei terreni e spesso gestori diretti delle sale entrano in conflitto tra di loro, tra questi dopo i Tron, i Grimani, i Vendramin e i Marcello. Si accendono discordie tra gli affittuari, spesso locatari inadempienti, con dispetti e strascichi di ogni sorta, una vera e propria «guerra dei palchi».
LA FAMIGLIA GRIMANI e IL TEATRO dei SS. GIOVANNI e PAOLO
«Di qualche anno appresso» al San Cassiano dei Tron è l’impresa per il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo dei nobili Grimani, situato sulle Fondamenta Nuove, così come attestato nella Descrizione e disegni d’interni redatta nel 1795/’96, pochi anni prima della cessazione della Serenissima allo scopo di tramandare l’origine di tutti i teatri veneziani, la cui diffusione si era mostrata determinante per lo sviluppo e le consuetudini della città. A differenza degli altri patrizi veneziani, per i Grimani l’impresa non avrà finalità di carattere speculativo, bensì strumento per soddisfare le proprie ambizioni politiche collocandosi, tramite il possesso di sale sempre maggiormente di richiamo, al centro dell’attenzione nella vita cittadina. Al vescovo Giovanni Grimani detto Spago, uomo colto ed appassionato collezionista di arte classica, si devono due: «principalissimi Teatri, uno situato sù le fondamente nuove detto di Santi Giovanni e Paolo, per esser ivi vicino (…) che, per esser prima fabricato di Tavole, e non tutto sopra il suo terreno, lo trasportò con prestezza incredibile, in poca distanza, sopra il suo fondo (…) facendolo erger tutto di pietra. Et un altro pure del medesimo Signore posto a S. Samuele». Ai nipoti ed eredi, l’abate Vincenzo e Giovanni Carlo Grimani, il compito nella seconda metà del Seicento di quello che sarà “l’undicesimo” teatro della città, il San Giovanni Grisostomo in corte del Milion e sempre a loro carico nel secolo successivo il San Benedetto che, per alterne vicende, si potrebbe definire se non il progenitore, il precursore de La Fenice. I componenti della casata veneziana si occuparono personalmente della gestione delle sale di proprietà, elargendo denaro pur di primeggiare nella contesa tra nobili per il controllo del palcoscenico di più elevato prestigio, finanziando allestimenti per il melodramma tra i più sontuosi di Venezia. Con il Santi Giovanni e Paolo detto il Grimano si era preferito un luogo ai margini della città per usufruire di un ampio spazio, per una sala sfarzosa e un capiente palcoscenico atto a ospitare scenografie barocche. La prima struttura risale alla fine del Cinquecento ed era in legno, ma persistendo in parte su di una terra altrui e nel tempo i materiali deterioratisi, Giovanni Grimani diede l’incarico di progettarne uno nuovo poco distante, alle Fondamente Nuove: «fu con prestezza trasportato dal N.H. Giovanni Grimani verso l'Anno 1638 sopra il suo Fondo in Barbaria delle Tavole, e lo fece erriger in quell'incontro di Pietra». Era l’allora più bello e agiato dei teatri «nato felicemente in pochi giorni per la felicità di un lungo secolo», inaugurato nel 1639 con il poema drammatico La Delia, ossia la Sera sposa del Sole su libretto di Giulio Strozzi membro dell’Accademia degli Incogniti, messo in musica da Francesco Manelli. Dopo un primo restauro fu riaperto nel Carnevale del 1639 e tra il 1640 e il 1656 vennero ingaggiati illustri compositori tra cui Claudio Monteverdi per la tragedia a lieto fine Le nozze di Enea con Lavinia del 1641 e l’anno successivo il dramma per musica L’incoronazione di Poppea, Antonio Cesti e con maggiore frequenza Francesco Cavalli, quest’ultimo autore di ben undici opere riscuotendo un tale consenso di pubblico da assicurare alla sala il primato tra tutti i teatri veneziani: «in quello di S. Giovanni e Paolo si recitano il Carnevale, Opere Musicali con meravigliose mutationi di Scene, Comparse maestose e ricchissime, machine e voli mirabili; vedendonsi per ordinario risplendenti Celi, Deitadi, Mari, Reggie, Palazzi, Boscaglie, Foreste e altre vaghe e dilettevoli apparenze. La Musica è sempre esquisita, facendosi scelta del miglior voci della Città conducendone anco da Roma di Germania, e d’altri luoghi». Con una ricca programmazione, senza limitazioni di spesa, il Santi Giovanni e Paolo si dimostrò fondamentale per la diffusione dell’opera con in cartellone le novità del momento, impiegando scenografi che assicuravano un allestimento “stupefacente” e cantanti da tutta Europa. Guidato tra il 1660 e il 1667 dall’impresario Marco Faustini, ritornò alla gestione diretta degli eredi di Giovanni Grimani, i fratelli Giovanni Carlo e Vincenzo, ma le attività del teatro andarono perdendo autorevolezza, avendo la famiglia maturato altre priorità nel campo teatrale investendo sul moderno e capiente San Giovanni Grisostomo. Per il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo declassato a sala popolare si decise, parimenti ad altre sale veneziane, di adottare l’ingresso a tariffario ribassato a un quarto di ducato, puntando a programmazioni con opere di largo consumo e limitato investimento. Venne chiuso nel 1699 e dopo una fugace riapertura nel 1714/’15, l’anno seguente definitivamente abbandonato, ma non demolito. Se ne conservarono le mura sino a quando nel dicembre del 1748 non crollò il tetto e i ruderi furono destinati a ospitare un magazzino contenente botti. Tre anni dopo ne verrà trattato l’acquisto da parte di una società, con il fine d’innalzare in quello stesso spazio un altro edificio teatrale, progetto mai realizzato.
TEATRO DI S. LUCA o DI S. SALVADOR poi GOLDONI
Il Teatro di San Luca o di San Salvador, fu edificato su di un fondo di case bruciate di proprietà della nobildonna Regina Vendramin su iniziativa di membri dello stesso casato, sito al confine tra le parrocchie di San Luca e di San Salvador, conosciuto come il Vendramin: «Fatto per recitar Commedie sempre di ragione della Famiglia Eccellentissima Vendramin di Santa Fosca, erretto per volontà del N.H. Andrea». Venne inaugurato nel 1622 con uno spettacolo della Compagnia degli Accesi e ospiterà principalmente spettacoli comici. Rimase chiuso a causa dell’epidemia di peste del 1630/’31 e già riaperto nel 1633, dotato di due file di logge, anno in cui nel registro della Sanità pubblica è riportato che a causa di un diverbio per il possesso di un palco un tale «Pietro Gritti fu ucciso». Distrutto da un violento incendio, venne ricostruito nel 1653 «in miglior forma» su mandato dei nuovi proprietari Andrea e Zanetta Vendramin all’interno delle vecchie mura rimaste intatte, affidandone la gestione agli impresari Boldù e Zane. Gli incendi dei teatri erano frequenti essendo realizzati all’interno in legname non sempre della migliore qualità e solo all’esterno, avvolte, in pietra o mattoni, facendosi spazio tra le abitazioni confinanti, con facciate di scarso rilievo e per lo più anonime. Le sale venivano spesso rinnovate, restaurate o ricostruite a causa dell’usura dei materiali o delle fiamme. Il progetto di rifacimento del San Luca venne assegnato all’architetto Pietro Chezia, probabilmente con la collaborazione di Francesco Santurini, quest’ultimo conosciuto a Venezia quale ingegnere e macchinista dei maggiori palcoscenici della città. Rifatta la sala, questa era articolata con cinque ordini di palchi di cui il piepiano (piano di platea) con ventuno logge e gli altri quattro con ventinove ciascuno più la soffitta, di cui sette a disposizione dei Vendramin e dieci degli impresari. Nel ’61 il gestore Boldù lo affittò per «recitar opere» dotando il palcoscenico di adeguati dispositivi tecnici per adeguarlo al repertorio veneziano della seconda metà del XVII secolo, con allestimenti dagli effetti “sbalorditivi”. Del ’61 è la prima rappresentazione de La Pasife, o vero L'impossibile fatto possibile con musica del francescano Daniele Castrovillari, composizioni di Giovanni Legrenzi che per il San Luca / San Salvador compose almeno dieci opere; nel 1666 Pompeo Magno di Cavalli e numerosi altri drammi in musica appositamente commissionati ed eseguiti in prima assoluta. I Vendramin dal 1681 firmarono un contratto con Gaspare Torelli, figura preminente della fine del Seicento veneziano, oltre che impresario, compositore, librettista, costumista e scenografo; questi s’impegnò nella programmazione e fu promotore di restauri e migliorie. Nel 1684/’85 venne ingrandita la sala, rinnovata la dotazione di palcoscenico, assicurando stagioni di maggior successo, scegliendo per la riapertura Ariberto e Flavio«drama per mvsica da rappresentarsi nel ristaurato famoso Teatro Vendramino di San Salvatore l'anno M.DC.LXXXV» con musica di Carlo Ambrogio Lonati e libretto di Rinaldo Cialli. I risultati del coinvolgimento del Torelli ebbero tale risonanza che i Grimani proprietari del San Samuele, dei Santi Giovanni e Paolo e del San Giovanni Grisostomo, preoccupati dalla concorrenza dopo che l’impresario nel 1687 aveva confermato il suo contratto con i Vendramin per altri dieci anni, lo convinsero ad accettare la proposta di lasciare Venezia per recarsi alla corte di Parma facendosi cedere in subaffitto il San Moisè, ma i Vendramin fecero causa chiedendo di annullare il contratto e dopo averla vinta dal 1689 ne ripresero la conduzione. Le controversie tra le due famiglie non avevano fine, a tal punto che nel 1703 i rivali si trovarono costretti a firmare un accordo che per cinque anni regolava le attività dei rispettivi teatri, intesa che non fu rinnovata. Le stagioni si alternavano con cartelloni tra opera e commedia, sino all’incendio del 1750 che costrinse i proprietari Antonio e Francesco Vendramin, eredi di Alvise, a rinnovarlo su disegno dell'architetto Pietro Checchia. Nel 1752 Francesco riuscì ad assicurarsi la collaborazione di Carlo Goldoni, considerato il più importante commediografo cittadino, stipulando con lui l’anno successivo un contratto decennale in qualità di direttore del teatro, con beneficio per il San Luca di ben sessanta commedie appositamente scritte, dalle quali prese avvio quella riforma da cui si definiranno personaggi immortali con i quali verrà identificata la stessa arte del palcoscenico. Nel 1775 la Commissione di vigilanza dei Provveditori de Comun decretò il teatro non sicuro, intimandone la demolizione. In sei mesi fu ricostruito confermando quale architetto Pietro Checchia che, con le dovute modifiche, si volle rifare alla sua precedente struttura, riqualificandola nei servizi e forniture di palcoscenico. Da un disegno di fine Settecento appare come la sala si presentasse con la consueta disposizione delle logge a quattro ordini più il pepiano, con quarantuno palchi per ognuno più quaranta, per un totale di duecento-quattro palchi, compresi i "forni" ai lati del boccascena, la cui ampiezza corrispondeva ai tre palchi delle file sottostanti. Nell’autunno del 1776 il San Luca riaprì e nel 1777 fece clamore la commedia di Carlo Gozzi Le droghe d’amore, crudele satira ai danni del potente Segretario del Senato Pietro Antonio Gratarol messo in burletta nel personaggio di Adone, una trappola appositamente ideata per vendicarsi della corte che questi faceva alla prima donna e compagna del Gozzi, tanto che fu costretto a fuggire e politicamente rovinato; questa era la Venezia del XVIII secolo e l’importanza del ruolo che vi svolgeva il teatro. Seguirono spettacoli di poca rilevanza a causa di un limitato coinvolgimento dei Vendramin, le cui finanze attraversavano un periodo d’instabilità causata dai concomitanti stravolgimenti politici. Caduta la Repubblica Serenissima nel 1797, nel mese di maggio i francesi occuparono Venezia, ma con il Trattato di Campoformio saranno obbligati a lasciare la città e il 17 ottobre di quello stesso anno nascerà la Provincia Veneta dell’Austria. Nel dicembre del 1805 l’Impero austriaco si trovò costretto a cedere la città al napoleonico Regno d’Italia e nel 1807 un decreto dell’8 giugno riduceva a quattro i teatri veneziani, ritenuti di numero eccessivamente elevato in conformità al: «al doppio fine dell’istruzione e del divertimento». Il San Luca fu sacrificato alle nuove disposizioni, anche se apparì un atto punitivo nei confronti dei Vendramin, sospettati di simpatie a favore della corona d’Austria. Al rientro degli austriaci nel 1815 a seguito della Restaurazione con la nascita del Lombardo-Veneto, un decreto imperiale restituì l’agibilità e per il teatro era il momento favorevole per riaffermarsi; l’occasione fu colta investendo sul progetto dell’architetto e scenografo Giuseppe Borsato, direttore dei lavori della durata di due anni, con intervento sulla configurazione, un’attenta manutenzione della sala e l’ammodernamento delle apparecchiature di palcoscenico, riaprendo competitivamente nel fronteggiare la concorrenza del recente Teatro La Fenice. Domina nel cartellone Gaetano Donizetti con due prime assolute, il 14 novembre 1818 Enrico di Borgogna e il 17 dicembre Una follia (Il ritratto parlante). Altro intervento nel 1833 per permetterne una più vantaggiosa fruizione: viene modificata la curva della sala con decorazioni di Francesco Bagnara in quel periodo scenografo a La Fenice, ampliato il palcoscenico con adeguamento tecnico e realizzato un atrio spazioso. Nell’occasione si decise di cambiarne il nome in Teatro Apollo, in competizione sia verso il San Giovanni Grisostomo per cui si annunciavano cambiamenti, dall’anno successivo si chiamerà Teatro Emeronittio, sia verso La Fenice che aveva introdotto la moda di termini classicheggianti non più riferibili, come precedentemente d’uso, alla parrocchia di appartenenza o al nome della famiglia. Nel 1818 in prima l’opera eroica Enrico di Borgogna sempre di Donizetti. Nel 1836 il Teatro La Fenice fu distrutto da un violentissimo incendio e con i Vendramin si raggiunge l’accordo di trasferire nel rinnovato Apollo gli spettacoli già predisposti per la stagione di Carnevale. Nel 1844 la struttura necessita di un ulteriore restauro, ma Domenico Vendramin muore e la conduzione viene assunta dalla vedova Regina nata De Marchi che la terrà per quasi quarant’anni, assicurando un’adeguata gestione con stagioni di tutto rispetto; fu il primo in Italia ad essere dotato d’illuminazione a gas. Nel 1853, nuovamente restaurato in stile neogotico fiorito per opera del pittore Ferrari Bravo e dopo il 1859, insieme con il Teatro di San Benedetto, supplirà nuovamente con i proprie attività alla chiusura del Teatro La Fenice, non disponibile a causa d’indifferibili riparazioni e rifacimenti. Dopo un ulteriore restauro, in occasione dell’anniversario dalla nascita di Carlo Goldoni la sera del 26 febbraio 1875, con un giorno di ritardo a causa di una forte nevicata, l’attore Angelo Moro-Lin, assieme a Regina De Marchi, si rese partecipe perintitolarlo al celebre commediografo. Nel 1880 muore Regina De Marchi e nel 1882 il teatro passa per successione alla famiglia Marigonda. Sono anni importanti per il Goldoni, di riqualificazione architettonica e coinvolgimento nell’attività teatrale, ospitando le più importanti compagnie italiane ed estere, ma la morte inaspettata di Antonio Marigonda provoca l’interruzione di tanto fervido impegno. Nel 1937 è acquistato dall’avvocato Giacomo Baldissera barone Treves De’ Bonfili proprietario di più sale teatrali, famiglia del fiorente settore bancario dell’emergente borghesia che aveva goduto nel secolo precedente dell’appoggio del Bonaparte. La gestione è affidata alle Imprese Cinematografiche Spettacoli Affini ed il teatro utilizzato quale sala cinematografica. Rimase in attività durante la Seconda Guerra Mondiale, ma nel giugno del 1947 ne fu proclamata l’inagibilità. Chiuso e dopo interminabili contrasti per la cessione della proprietà, nel ’57 l’esproprio da parte del Comune di Venezia, a cui seguiranno inesauribili contraddittori tra coloro che ne avrebbero voluto la conservazione con restauro conservativo e altri che ne chiedevano la demolizione per far posto a una diversa tipologia di sala. Nel 1964 venne posta fine alla controversia con l’approvazione di un progetto per il mantenimento dell’interno, con opportune modifiche per migliorarne capienza e servizi e la progettazione di una nuova facciata. Il teatro è inaugurato nel 1979 con La Locandiera di Carlo Goldoni, la sala è all’italiana a quattro ordini di palchi e galleria; il palcoscenico largo dodici metri e profondo poco più di undici. Dal 1992 la gestione è affidata al Teatro Stabile del Veneto.
TEATRO DI S. MOISÈ
Il Teatro San Moisè, operante dal 1613 al 1818, fu detto anche dei Giustiniani come d’uso dal nome della famiglia dei proprietari, i fratelli Lorenzo e Alvise Giustinian di Santa Barbara che ne avevano finanziato la costruzione su di una loro proprietà attigua alla chiesa di San Moisè nel Sestriere di San Marco, resasi disponibile a causa di un incendio. Nel 1628 gli Zane (o Zan) ereditarono il cospicuo patrimonio del ramo dei Giustinian, tra cui il Teatro di San Moisè, amministrandolo sino al 1715, per poi tornare ai Giustiniani quando gli Zane si estinsero in linea maschile. Nel 1638 se ne rese necessaria una prima ristrutturazione per renderlo idoneo a ospitare opere in musica e fu riaperto nel 1640 dal N.H. Almorò Zane con la tragedia Arianna di Claudio Monteverdi su testo di Ottavio Rinuncini. Il teatro, passato di proprietà a Marin Zane, avrà vita travagliata con cambi di esercizio ed impresari non sempre adeguati, causando periodi d’inattività. Venne riaperto negli anni ’60 del Seicento per tre stagioni con gestione di una società accademica, ma chiuse nuovamente sopraffatto dai frequenti scandali e disordini insorti tra gli spettatori. Nel 1668 la sala è rifatta con due ordini di palchi e capienza di ottocento posti e dal 1674, grazie a una gestione appropriata, il teatro assume notorietà per la politica gestionale del rampante impresario Francesco Santorini che vi aveva già lavorato in qualità di scenografo, applicando dalla stagione di Carnevale del 1675 un sistema che si rivelerà vincente, di ribassare il prezzo del biglietto d’ingresso da quattro lire a un quarto di ducato. Risoluzione che richiamerà un pubblico numeroso, tanto che altri gestori nell’arco di qualche anno e non poche resistenze furono costretti ad adattarsi nell’applicare analoga tariffa, esclusi i Grimani per il San Giovanni Grisostomo, famiglia che nel controllo dei teatri veneziani miravano a ben più ambizioso risultato. Infastidito dal fenomeno di una politica populistica di deprezzamento degli ingressi a discapito della qualità delle proposte è il librettista Pietro Dolfin: «a S. Moisè si fa un opera, senz’altra spesa, che quella del palco, ma è tanto poco di buono, che più d’una volta non torna il conto di vederla; e pur quella ha l’applauso, et è sempre ripieno il teatro». L’entrata in vigore di questa disposizione metterà a rischio i bilanci già precari delle imprese e non fu gradita dagli altri impresari che si erano dovuti sottomettere alla svalutazione dei loro guadagni e in particolare da quello del Teatro di San Luca che, d’accordo con i Grimani, minacciò di bastonare il Santorini. La disputa, i vivaci contrasti con azioni giudiziarie, pratiche di palcoscenico poco avvedute e sull'orlo della bancarotta, costrinsero la proprietà ad interrompere il contratto con Santorini, il quale per tutta risposta pochi anni più tardi, dopo aver tentato di rientrare al San Moisè, fondò il “suo” Teatro di Sant’Angelo. Nel 1681 dopo ripetuti contrasti con la gestione e vari passaggi impresariali il teatro fu demolito e ricostruito, tornando di proprietà: «alla Famiglia Eccellentissima Zustinian di San Barnaba per estinzione della suddetta Eccellentissima Casa Zane di San Stin» circostanza che «non restò del tutto inutile poiché fu fatto servire per brevi momenti al giuoco d'alcune figure ora di Cera, ed ora di Legno», un genere che aveva riscosso successo l’anno precedente a Tutti i Santi alle Zattere: «il dramma per marionette» con pupazzi al posto dei cantanti, con le voci in quinta dei “Musei di dentro”. Nuovamente ammodernato nel 1684, fu riaperto per la stagione di Carnevale affrontando non poche difficoltà gestionali, rimanendo in attività sino a metà del Settecento quando su progetto dell’architetto Francesco Bognolo venne realizzata la nuova e più capiente struttura con quattro ordini per un totale di centosette palchi e vi vennero ospitate composizioni di Antonio Vivaldi e Tommaso Albinoni, distinguendosi in seguito nel repertorio dell’opera buffa veneziana e napoletana con lavori di Baldassarre Galluppi su libretto di Carlo Goldoni, di Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta, Pasquale Anfossi. Nuovamente restaurato nel 1772, pur restando di dimensioni ridotte con non più di ottocento posti, l’attività si protrasse sino al 1818. Dopo la caduta della Repubblica veneta, sia i francesi, sia gli austriaci, cercarono di limitare la tradizione legata al repertorio operistico buffo, eppure il genere restava vivissimo e il teatro continuava a offrire spettacoli di successo, spaziando nei repertori con prime e riprese di opere di Simon Mayr, Giuseppe Farinelli, Gaspare Spontini. L’attore italiano naturalizzato francese Luigi Riccoboni ricorda che nel 1738 i maggiori teatri operanti a Venezia sono: «quattro pe le commedie e quattro per l’Opera - i teatri sono magnifici», in realtà se ne sarebbero potuti contare circa quattordici, ma il numero di quelli principali a inizio Ottocento è confermato a otto, quando il decreto napoleonico dell’8 giugno 1806 ne riduce il numero a quattro stabilendo il ruolo di ognuno, destinando il recente Teatro La Fenice a spettacoli d’opera seria, il San Benedetto sia per l’opera in musica che rappresentazioni comiche, il San Giovanni Grisostomo a farse in musica in alternanza tra opere comiche e spettacolo leggero, infine per il San Moisè a farse musicali in un atto, raramente spettacoli d’opera seria e semiseria, chiusi tutti gli altri. Nel 1810 al Teatro di San Moisè approda un compositore diciottenne di nome Gioachino Rossini per la prima esecuzione della farsa comica La cambiale di matrimonio su testo di Gaetano Rossi ed è da questo palcoscenico che avrà inizio la parabola ascendente veneziana del pesarese. Il compositore poteva contare su di un organico d’orchestra di buona qualità e di ampie dimensioni, per i recitativi oltre al cembalo, due contrabbassi e un violoncello. Seguiranno altre cinque novità rossiniane, tra cui due anni dopo La scala di seta e la burletta per musica L’occasione fa il ladro. Le sorti porteranno alla chiusura il San Moisè nel 1818 per volontà degli stessi Giustinian, ma dovrebbe aver continuato a operare per un paio d’anni e vi sarebbe stato rappresentato in replica il Torvaldo e Dorliska di Rossini. Verso il 1820 fu venduto e utilizzato quale officina di falegnameria, per essere poi riadattato a sala per spettacolo nel 1871 e nove anni più tardi cambiato il nome in Teatro Minerva. Dal 1906 è utilizzato quale sala cinematografica e poi definitivamente demolito. Una targa ne ricorda il glorioso passato, nel nome di Rossini e dei fratelli Lumière.
TEATRO NOVISSIMO di SS. GIOVANNI e PAOLO
Venezia sviluppò rapidamente il gusto per l’opera, l’entusiasmo portò all’apertura di molti teatri, tra cui il Novissimo dei Santi Giovanni e Paolo «sotto la protezione del N.H. Luigi Michiel, e di varj altri Cavalieri», in attività tra il 1641 e il 1647, attestandosi nei pochi anni di esercizio tra i più celebri della Venezia del periodo Barocco. Realizzato in legno, era stato commissionato da un gruppo di cavalieri dell'Accademia degli Incogniti allo scenografo marchigiano Giacomo Torelli, che vi compì una vera e propria rivoluzione del palcoscenico seicentesco con profondità di ben dodici metri, realizzandovi un macchinario come non si era mai visto formato da otto quinte per lato mosse rapidamente e in sincrono da una "grande ruota” posizionata nel sottopalco. Della sala si hanno contrastanti versioni, da cavea con gradoni al più diffuso assetto a palchi, tra le ipotesi plausibili una combinazione tra i due stili. Inaugurato il 14 gennaio 1641 con il dramma per musica La finta pazza di Francesco Sacrati su testo di Giulio Strozzi, il teatro ospitò melodrammi con allestimenti tra i più sfarzosi di tutta Venezia, destando meraviglia nei presenti. Si davano solo opere in musica, essendo vietato recitarvi «commedie buffonesche o di altra natura», per la restrizione contrattualizzata con i frati domenicani dei Santi Giovanni e Paolo, proprietari del fondo. Assisteva agli spettacoli un pubblico sempre numeroso, attratto dalla spettacolarità degli effetti e delle macchine barocche, come per IlBellerofonte di Francesco Sacrati nella stagione di Carnevale del 1642: «viddsi sorger dal mare in modello la Città di Venetia così esquisita, e vivamente formata (…) dell’inganno ogn’hor più godeva scordandosi quasi per quello finta della vera dove realmente si tratteneva». Ebbe vita breve, cessando l’attività a causa di uno scandalo che ebbe ripercussioni giudiziarie coinvolgendo personalità di spicco, probabilmente colluse nel sovvenzionamento del teatro. Nel 1647 dopo una ripresa di Deidamia di Francesco Cavalli su libretto di Scipione Herrico eseguita la prima volta su quello stesso palcoscenico tre anni prima, il teatro fu chiuso dopo appena sei anni di successi ininterrotti, distrutto e di seguito dimenticato. Sulla stessa area venne edificata nel 1649 La cavallerizza dei Nobili, un vasto ambiente (tezòn) con attiguo terreno scoperto in cui venivano allestite delle tribune. Durante il periodo di Carnevale, dal 1660 al 1797, l'Accademia della Cavallerizza vi promosse balletti equestri, quintane, giostre. In seguito accademie di musica vocale e strumentale a cui partecipò Benedetto Marcello, quindi la struttura venne adibita a “savoneria” (fabbrica di saponi) e definitivamente dismessa all’arrivo dei francesi.
TEATRO NOVISSIMO di S. APOLLINARE
Tra i teatri che riscossero l’attenzione del pubblico, sia pure per un periodo ridotto, dal 1651 a circa il 1669, è quello Novissimo di Sant’Apollinare sito al primo piano di un edificio precedentemente adibito ad abitazione nell’omonima parrocchia. Si presentava con sala a ferro di cavallo su pianta ovata con tre ordini di sedici palchi ciascuno, per un totale di quattrocento posti; un palcoscenico di dimensioni ridotte adibito a drammi per musica e in seguito spettacoli accademici dove risulterebbe siano stati allestiti pochi titoli d’opera, pur sempre in prima esecuzione assolta. Affittato dal 1650 dove: «si soleva anticamente recitar commedie», il teatro fu condotto dal giovane Giovanni Faustini, librettista e impresario, conosciuto per il suo rapporto privilegiato con il compositore Francesco Cavalli, potendo contare sull’autorevole protezione dei nobili Alvise Duodo e Marc'Antonio Correr. Inaugurato con il dramma per musica L'Oristeo di Francesco Cavalli su testo dello stesso Giovanni Faustini, improvvisamente quello stesso anno, dopo il successo della prima stagione, Zuane (Giovanni) morì mentre era al lavoro per organizzare la successiva, sostituito nella gestione dal fratello maggiore Marco, che si limitò a subaffittare il teatro. Dopo alcuni anni d’esperienza nell’impresariato Marco Faustini venne coinvolto in una causa riguardante la proprietà delle quote del teatro e preferì cedere la sala all'Accademia degli Imperturbabili, ritirandosi nel 1657 per gravi ragioni gestionali e le continue liti. Gli accademici ne imposero nel 1658 lo smantellamento, si presume avvenuta dal 1661: «stante che intende disfar li palchi et sena di detto teatro». Nel frattempo, nel 1660, al Sant'Apollinare furono rappresentati alcuni spettacoli, tra cui l'opera in “stile recitato” La Pazzia in trono, ovvero Caligoladelirante attribuibile al drammaturgo veneziano Nocolò Beregan con musica di Giovanni Maria Pagliardi e nel 1661 una ripresa del dramma per musica L'Eritrea di Cavalli. Riaperto solo occasionalmente, a causa di una protesta inoltrata nel 1696 al Consiglio dei X sulle condizioni della sala che non garantiva sicurezza, le rappresentazioni furono assoggettate al permesso dell’organismo vigilante, preoccupato dal pericolo di possibili incendi. Da quella data, però, risulta non più essere utilizzato per spettacoli, bensì adattato a deposito di “Doganetta dell’Olio”: «Continuò ininterrottamente fino l'Anno 1669, fin a tanto che resosi inoperoso perché cadente fu tramutato in poche Case».
TEATRO S. SAMUELE
Nella storia di Venezia la costruzione di edifici teatrali si presenta in rapida successione, con il San Samuel (Samuele) del 1655 protagonista è ancora Giovanni Grimani di Santa Maria Formosa, che ne promosse la realizzazione in corte del Duca, nel quartiere di San Marco, con tale dispendio di mezzi da essere valutato dal fisco per una somma quasi doppia rispetto agli altri teatri. Zuanne (Giovanni) dichiarerà con orgoglio di possedere: «un Theatro nel quale ho fatto grossissime spese per fabbricarlo et convengo farne di continuo (…) onde bisogna star sempre con il denaro alle mani». All’italiana con platea su pianta a ferro di cavallo, il teatro fu destinato a commedie e dopo un opportuno rifacimento il cartellone si arricchirà di opere in musica; del 1710 è la prima assoluta del dramma L'ingannator ingannato di Giovanni Maria Ruggeri su libretto di Antonio Marchi. Recitò al San Samuele l’attrice Zanetta (Giovanna) Farussi detta la Buranella rimasta vedova a soli ventisette anni, di lei scriverà Goldoni «Una vedova bellissima e assai valente»; madre di Giacomo Casanova che ventenne nel 1745 vi venne assunto come musico (violinista) facendo sparlare fosse figlio naturale del nobile Michiel Grimani, successivo proprietario del teatro. Vi si tennero prime d’importanti opere barocche quali nel 1735 Griselda di Vivaldi con un’orchestrazione per soli archi non avendo il teatro un organico più ampio, con testo tratto dal libretto di Apostolo Zeno risalente al 1701, rimaneggiato per l’occasione da Carlo Goldoni. Nelle Memorie il commediografo rievocherà quel primo incontro con Vivaldi allo scopo di ottenere il consenso ad adattare il libretto di Griseldaalle sue esigenze: « Andai pertanto dall’abate Vivaldi (…) trovai quell’uomo circondato di musica, e col breviario in mano (…) Rileggo la scena di cui avevo già tutta la notizia, fo la recapitolazione di ciò che il maestro desiderava (…) Vivaldi legge, aggrinza la fronte, rilegge da capo, e prorompe in gridi di gioia (…) Eccomi dunque iniziato nell’opere, nella commedia, e negl’intermezzi, che furono i precursori dell’opere comiche italiane». Il periodo nel quale Goldoni collaborò con i Grimani assume un particolare rilievo essendo precorritore della riforma metastasiana, contraddistinta dall’ascendente del poeta e librettista Apostolo Zeno ed il debutto di Goldoni nel dramma per musica è l’esempio più evidente di come nei teatri veneziani si coniugarono quelle convergenze riformatrici che segneranno il futuro dell’opera in musica. Dal 1737 Carlo Goldoni assumerà la direzione del San Samuele, facendovi rappresentare diversi suoi lavori; il 25 maggio del 1740 vi si tenne la prima assoluta di Gustavo primo re di Svezia dramma per musica di Baldassarre Galluppi e libretto di Goldoni, di coloro che confrontandosi in altro repertorio saranno gli artefici dell’opera comica veneziana. Su sollecitazione dei proprietari il drammaturgo lasciò l’incarico nel 1741 per dedicarsi, al servizio degli stessi Grimani, al San Giovanni Grisostomo. Nell’autunno del 1747 la prima de L’isola disabitata dramma giocoso con musica di Giuseppe Scarlatti per il quale Goldoni si firmò con lo pseudonimo di Polisseno Fegeio. Durante la notte del 30 dicembre il Grimano di San Samuel venne distrutto da un incendio e fu ricostruito dagli architetti Romualdo e Alessandro Mauro in pochi mesi, con pianta a ferro di cavallo schiacciato, a raquette e palchi ridotti da sei a cinque ordini. Riaperto il 22 maggio del 1748 con Ipermestra di Ferdinando Bertoni, i lavori di ricostruzione non erano terminati e la decorazione della sala ancora da cominciare; pur incompiuto quello stesso anno in occasione della Fiera della Sensa vi fu rappresentata l'opera Il mondo alla roversa con libretto di Goldoni e musica di Baldassarre Galluppi, evento di tale rilievo da imporre il San Samuele quale teatro di riferimento per l’opera buffa veneziana. Negli anni seguenti la sala si rese celebre per ospitare i rivali del celebre commediografo e librettista tra cui Carlo Gozzi, tra i più critici nei confronti della riforma goldoniana, il quale nel 1761/’62 vi rappresentò le sue prime celebri favole tra cui Turandot, favorito dal consenso del pubblico. Si consumava l’aspra rivalità tra i due commediografi, con il San Samuele in competizione con i teatri di Sant’Angelo e di San Luca, quest’ultimo dei Vendramin che dal 1752 ne avevano affidato a Goldoni la conduzione. Rimasto chiuso per alcuni anni a seguito dell’apertura del San Benedetto di proprietà sempre dei Grimani, venne ceduto nel 1770 a causa delle difficoltà finanziarie che avevano indebolito il patriziato veneziano, vendendolo a «molti Consorti». Chiuso nel 1807 per decreto napoleonico, fu riaperto nel 1819 per un breve periodo come Teatro Sociale Cittadino; il 26 dicembre vi si tenne la prima assoluta de Il falegname di Livonia di Gaetano Donizetti e successivamente riprese di opere di Gioachino Rossini. Di proprietà della «Nobile Società di palchettisti», fu venduto al veronese Giuseppe Camploy, mecenate e noto appassionato di musica, che provvide al rinnovamento delle principali strutture con inserimento del loggione, così come in epoca ottocentesca e risorgimentale per le principali strutture veneziane e con adeguamento dell’impianto d’illuminazione a gas: «Appartiene al signor Giuseppe Camploy (…) Fu di recente riordinato dall’attuale proprietario. Consta di 4 file con 130 loggie. Ha loggione. La platea è capace di 540 persone; il loggione di 200 e l’intero teatro di circa 1300». In una cronaca di Sir Francis Palgrave riportata in una pubblicazione del 1847, si legge: «It is a pretty theatre well adapted for hearing. Opera buffas are performed here». Il teatro, così rinnovato, dal 1853 cambiò nome assumendo quello del proprietario e vi si avvicenderanno da metà Ottocento celebri compagnie di prosa, tra cui quelle di Adelaide Ristori e di Angelo Moro Lin, in quest’ultimo caso con il rilancio della commedia dialettale. Rimase in attività sino a dopo l’Unità d’Italia e nel 1878 venne definitivamente chiuso. Sarà ricordato quale palcoscenico di massimo splendore della scena veneziana, con significativi debutti che hanno segnato un punto di svolta nell’evoluzione dell’arte di palcoscenico ben oltre i confini della città, con debutti significativi di Johann Adolf Hasse, Vivaldi, Galuppi, Rossini e Donizetti. Giuseppe Camploy nel 1889 lo lasciò in eredità al Comune di Verona. ma se ne preferirà cancellare la testimonianza quando, acquistato dal Comune di Venezia nel 1894, venne fatto demolire e al suo posto costruito un edificio scolastico.
TEATRO di SANT’ANGELO
Nella Venezia della seconda metà del Seicento si fanno strada i “gemelli” Santurini: Francesco figlio di Stefano e Francesco di Antonio, anche se non è noto se tra i due vi fosse una legame di sangue, probabilmente zio e nipote. Li legava, più che una parentela, la formazione presso la “Casa dell’Arsenal” di Venezia, da dove erano uscite personalità dell’arte teatrale, poiché l’abilità nell’uso del legno per la fabbricazione delle navi era necessaria per costruire i teatri e realizare le scenografie; il termine “ingegnere” o “pittore di scena” è quello che sarà in seguito utilizzato per identificare lo scenografo. Da aggiungere che quella del doppio mestiere era una pratica diffusa, non garantendo il lavoro in teatro un guadagno stabile. Entrambi diverranno celebri, il primo e più anziano da semplice “calafà”, dopo aver ricevuto nel Carnevale del 1657 il suo primo incarico di «direttori de le scene, e machine» al Teatro di Sant’Apollinare (noto come Aponal), si distinse come macchinista nei maggiori palcoscenici musicali di Venezia, affermandosi a fama europea in qualità di “apparatore di corte” in Baviera; il secondo da “marangone”, dopo l’incarico di ingegnere ed impresario al San Moisè, fondò il Teatro a Sant’Angelo. Francesco di Antonio «maestranza tuttofare a Venezia dell'arte scenica», essendo stato costretto ad abbandonare il San Moisè per dissapori con i proprietari Grimani ed essersi inimicato non pochi impresari per la decisione di ridurre il costo del biglietto d’ingresso favorendo l’affluenza di pubblico, tutt’altro che scoraggiato, s’impegnò dal 1676 nella fabbrica del Teatro di Sant'Angelo, su di un fondo di case diroccate in riva al Canal Grande a Sant’Angelo, contiguo alla corte dell’Albero di proprietà dei Capello (Cappello) appartenenti ai rami in Canonica e di Santa Maria Mater Domini e dei Marcello a San Gregorio, questi ultimi distinti da quelli alla Maddalena da cui ebbe i natali il compositore Benedetto: «una proprietà ruinosa per la maggior parte, anzi rovinata con materiali diversi, resta da molto tempo in qua inutile affinché possa sopra quella costruire un teatro per recitarvi e comedie e opere a suo piacimento». Si stabilì che la concessione fosse limitata a sette anni, dopodiché il terreno e quanto sopra costruito sarebbe tornato in possesso dei locatari. Situato in una zona centrale non distante dalle più importanti sale teatrali, l’autore del progetto fu lo stesso Francesco Santurini realizzandolo a sue spese su di un’area di circa ventuno metri per trenta con sala tipicamente all’italiana attorniata da cinque ordini per complessivi centotrenta palchetti più la “soffitta” (nella pianta di fine Settecento ne risultano centosessanta-tre); alla platea si accedeva da due porte, una al centro dell'emiciclo, l'altra laterale; il palcoscenico era poco profondo, ma ben attrezzato per ospitare allestimenti che avrebbero monopolizzato per un certo tempo l’attenzione del pubblico veneziano. Inaugurato nel 1677 con Helena rapita da Paride di Domenico Freschi su testo di Aurelio Aureli, riscosse sin dalle prime stagioni un notevole successo con affluenza di pubblico, offrendo ogni anno una o due prime assolute, distinguendosi sino ad essere annoverato tra i sette teatri lirici più importanti di Venezia. Con il Sant’Angelo il Santorini compiva la vendetta per essere stato allontanato dal San Moisè, realizzandosi grazie alla sua abilità gestionale in concorrenza con i Grimani e i Vendramin. Per superare la sfida e appagare il proprio orgoglio commissionò scenografie dispendiose, scritturando gli artisti più celebri; nella stagione teatrale 1678/’79 venne messa in scena La Circe con: «voli d’Amorini, e d’ombre (…) passaggieri convertiti in fiere, di fontane e statue parlanti, un globo, che getta fuoco, e si dirama per la scena con più spiriti in aria». Nell’aprile del 1679 il corrispondente del Mercure galant ne elogia gli allestimenti: «la beauté des machines et des décorations répondoit à la bonté des instrumens et de la musique». Per fronteggiare la pressante competizione si rendeva necessario offrire scenari di tale opulenza le cui realizzazioni andavano ad incidere su bilanci sempre meno stabili: «L’opera era raramente redditizia e spesso rovinosa. Chiunque se ne faceva promotore doveva essere preparato a sottoscriverne le quasi inevitabili perdite». I costi aumentavano e le produzioni richiedevano l’impiego di cifre non equilibrate al guadagno, essendo reclamate proposte sempre innovative e presenze che richiamassero quella moltitudine di pubblico che, una volta esaurita la spinta iniziale, veniva distratto da proposte più stimolanti, nell’ingranaggio impietoso del mercato veneziano del teatro d’opera nell’incessante concorrenza e irrefrenabile desiderio di eventi all’avanuardia. I Grimani allo scopo di riaffermare il primato delle loro sale promossero nel 1682 la costruzione del San Giovanni Grisostomo che si sarebbe imposto con autorità e così che la guerra si fece ancor più feroce, con ripercussioni nella gestione del Sant’Angelo. La spinta iniziale della riduzione del prezzo del biglietto a un “quarto di ducato” praticata dal Santorini quando era al San Moisé e ora al Sant’Angelo era oramai pratica diffusa in molte altre sale perdendo d’efficacia, tanto da indurre l’impresario a reagire con l’azzardo d’investimenti gravosi: per il Giulio Cesare trionfante nel Carnevale del 1682 si scrisse «non hà riguardato à risparmio di spesa il Signor Francesco Santurini, per l’apparenze numerose, e magnifiche di comparse, habiti, e Scene, l’architettura, e pittura». Volendo caparbiamente sostenere la sua attività propose allestimenti dispendiosi, ma le casse del teatro, inizialmente floride grazie al ricavato del tradizionale “regallo”, ben presto entrarono in affanno per i costi crescenti della gestione con incassi che non sempre coprivano le spese. La situazione si aggravò ulteriormente a causa dei crediti inevasi nel pagamento degli affitti dei palchi; l’inadempienza dei “palchettisti” era a Venezia una pratica diffusa tanto che al Sant’Angelo raggiunse livelli critici, perché i nobili consideravano il Santorini un piccolo borghese di umile condizione a cui non era dovuta risposta alle sollecitazioni di pagamento. L’impresario non poteva permettersi di perdere l’appoggio dei suoi patrocinatori, a differenza dei Vendramin e dei Grimani che, trovandosi nella condizione di trattare alla “pari”, costringevano gli aristocratici debitori a saldare il dovuto, pena la perdita del privilegio nella prelazione. Nonostante le difficoltà Santurini non volle darsi per vinto, impegnando ogni risorsa ed esponendosi finanziariamente e pur di non perdere il vantaggio del Sant’Angelo con la gestione imprudente nell’offrire spettacoli che si avvalevano di impianti scenici imponenti, dovette ricorrere alla “protezione” di un gruppo di committenti privati detti “carattadori”, patrizi o uomini influenti, i cui interessi nella politica destavano diffidenza. Il sistema di finanziamento delle stagione d’opera a Venezia si mostrava tortuosa, all’aspetto economico si evidenziavano le speculazioni di tipo politico/sociale e sempre più si affermavano i così detti “interessati”, ovvero quegli azionisti/investitori che interferivano sulle scelte artistiche facendo prevalere i propri vantaggi. Del 1685 è l’ennesimo tentativo di Santurini con l’intimazione ai compatroni del Sant’Angelo affinché intervenissero nella persistente difficoltà di riscuotere i pregressi “regali” e gli affitti. Il deprezzamento del biglietto d’ingresso si mostrava sempre più un’arma a doppio taglio, perché se da una parte aveva favorito una più ampia frequentazione, dall’altra costringeva, nonostante i ripetuti azzardi, a ristrettezze con detrimento della qualità degli spettacoli e conseguente malcontento degli spettatori; scriveva il compositore Giovanni Legrenzi: «Al Santo Angelo, per essere da trentauno, fanno qualche bolettino; ma ne meno questa incontra (produzione); onde recitano anch’essi con niun aplauso». Per sostenersi era necessario offrire un prodotto sempre competitivo e l’ambizione portò Santurini a realizzare progetti che non avrebbe potuto sostenere, se non indebitandosi ulteriormente. Con ingressi a «trenta un soldo (…)» -ebbe a dichiarare Vincenzo Grimani che gestiva i teatri di famiglia, è cosa impossibile- « (…) avvantagiar nel medesimo le proprie fortune», motivando così la sua decisione di mantenere nel più recente San Giovanni Grisostomo l’ingresso a prezzo pieno. Al Sant’Angelo, nonostante le difficoltà e qualche incertezza, si susseguivano eventi con lavori di rinomati compositori, nel 1691 La Flora melodramma postumo di Antonio Sartorio completato da Marc'Antonio Ziani con poesia di Aurelio Aureli all’epoca librettista tra i più richiesti e tanti altri episodi che distinsero i cartelloni del Sant’Angelo. Al termine del mandato nel 1683 Santorini chiese ai proprietari, nel frattempo ulteriormente frammentati per via di acquisizioni dotali, il rinnovo della locazione, per poter proseguire in quella che riteneva una missione e allo stesso tempo cercare di porre rimedio al dissesto finanziario. Ottenne la proroga di un triennio, ma i tempi erano cambiati, la concorrenza era sproporzionata e la storia che seguirà è lastricata da ostacoli e vicende giudiziarie, in causa con i proprietari e dagli “interessati” per via delle loro ingerenze negli affari di quello che considerava il “suo” teatro, perseguitato dai debitori. Del personaggio, già anziano, si saprà essere malato alla fine del XVII secolo e totalmente cieco, dal 1707/’08 se ne perderà ogni traccia, presumibilmente morto. I possessori non esperti in conduzione di un teatro si trovarono ad allestire stagioni di scarso interesse e addirittura “disastrose” quando ne incaricarono l’impresario messinese Giuseppe Santi, dimostratosi incapace. La svolta nella gestione è nel 1688, quando si farà strada a Venezia un altro personaggio, il trentacinquenne architetto e ingegnere Tomaso Bezzi detto lo Stucchino, con vasta esperienza in campo teatrale acquisita alla corte del duca di Modena Francesco II d’Este, al Sant’Angelo con il fratello Paolo anche lui ingegnere che in un documento d’epoca è qualificato: «famosissimo architetto» autore nel 1686 degli apparati effimeri realizzati alla Giudecca (ma successivamente sulle sue abilità si espressero non pochi dubbi). Con i fratelli Stucchino i cartelloni del Sant’Angelo si distinsero nella programmazione dei melodrammi; il debutto fu significativo con la prima assoluta il 19 gennaio 1688 del dramma per musica La fortuna tra le disgrazie con musica di Paolo Biego e libretto di Rinaldo Cialli, occasione per il debutto quali scenografi teatrali dei due fratelli che sino ad allora avevano avuto esperienze quali macchinisti e apparatori, allestimento che entusiasmò un pubblico emotivamente coinvolto nelle vicende della guerra di Morea, meglio conosciuta quale sesta guerra turco-veneziana. Se ne descrissero con unanime consenso i repentini mutamenti con “Apparenze” e “Avenimenti”, impressionò un gigante meccanico «spaventoso in guisa che reca terrore», la corsa di un capriolo inseguito da cani e cacciatori, il ballo grottesco di gobbi che balzavano da congegni dalla forma di grosse lumache e di grande effetto la scena con la simulazione di un sacrificio umano con raggio luminoso proiettato dalla “macchina del sole” dalla quale sembrava irradiarsi un fuoco che consumava la vittima; scenari con colonnati, di sale «di lumi» e «d’argenti», fontane d’«acque vive»; si scrisse: «Ha finalmente Venetia un non so che di particolare nella rappresentatione dell’opere, che lei sola sa farlo». Il contratto d’affitto con gli Stucchini era di quattro anni, rinnovato per un biennio, nel frattempo Tomaso, oramai scenografo di successo, fu talmente impegnato da collaborazioni con altri teatri, principalmente a Venezia per il San Giovanni Grisostomo, da subappaltare l’impresa a un suo “cessionario” di nome Francesco Quintavalle, dimostratosi non all’altezza del compito tanto da indurre i comproprietari a un severo richiamo. Nel 1682 Tomaso Bezzi, si vociferò ad insaputa dei locatari, prese l’iniziativa di un restauro del teatro e il «Novissimo Teatro di S. Angiolo» riaprì il 15 novembre 1692 con La Rosalinda su musica di Marc’Antonio Ziani e libretto di Antonio Marchi. Nel repertorio si faranno strada la dirompente opera buffa napoletana e la commedia. Dalla stagione 1693/1694 la conduzione del Sant’Angelo passa a un altro impresario; nel 1696 vi si tiene il debutto quale librettista di Apostolo Zeno, che si distinguerà quale protagonista del dramma riformato, con Gl'inganni felici, musica di Carlo Francesco Pollarolo. Nel 1713, dopo i successi di Ottone in villa e dell'oratorio La vittoria navale, Antonio Vivaldi in due momenti tra il 1712 e il ’27 ne assume la gestione insieme al padre, esperienza che rivela nel compositore un talento imprenditoriale, potendo vantare piena libertà nella scelta dei titoli in cartellone, rappresentandovi dodici sue opere tra cui quelle espressamente composte per essere rappresentate per la prima volta a Venezia, spiccando per scelte e strategie di stagioni, con interventi sulle proprie partiture e su quelle altrui, nonché il contributo alla realizzazione di opere nel genere del pastiche. Si conserva del 13 ottobre 1726 uno tra i tanti contratti predisposti da Antonio Vivaldi per il Teatro di Sant’Angelo, quello con la cantante Lucrezia Baldini a dimostrazione dell’attività del compositore/impresario: «per dover recitare nella terza et ultima opera che si farà nel carnovale dell’anno 1727 in una parte da donna (…) fissando l’onoraio in (…) duecento ducati di valuta corrente che le saranno versati un terzo prima che entri in scena la prima sua recita, un terzo a mezo delle recite della detta opera, e il saldo il giorno del giovedì grasso». Dal 1747/1748 il Sant’Angelo è gestito da Gasparo Gozzi, fratello del drammaturgo Carlo, con esiti economicamente si disse “rovinosi”, giudizio negli ultimi tempi riconsiderato asserendo che, con la moglie Luisa Bergalli ottima traduttrice dal francese tra cui i testi di Molière, il Gozzi avesse contratto il vincolo non con i proprietari del teatro, bensì con la compagnia di comici di Onofrio Paganini insediatasi al Sant’Angelo per un quinquennio, qualificando quel palcoscenico quale terzo polo veneziano della prosa, in concorrenza con il San Luca dei Vendramin e il San Samuele dei Grimani. Dal 1748 Carlo Goldoni, rientrato a Venezia, firmò un contratto quadriennale al Teatro Sant'Angelo con l'impresario Girolamo Medebach e tra il 1748 e 1753 vi si rappresentarono numerose sue commedie. In seguito il palcoscenico perse d’importanza e iniziò una lenta, quanto inarrestabile decadenza. Nella funzione di direttore del teatro vi si cimentò a cinquantacinque anni Giacomo Casanova, scritturando nel 1780 una compagnia di comici francesi allo scopo di valorizzarne la primadonna. Nel 1803/’04 durante l'occupazione francese il Teatro di Sant’Angelo fu chiuso, abbandonato e ridotto a magazzino.
TEATRO DI SAN GIOVANNI GRISOSTOMO poi MALIBRAN
Tra l’apertura del San Cassiano circa del 1580 e l’inaugurazione nel 1678 del San Giovanni Grisostomo, l’ultimo teatro del secolo XXVIII, furono rappresentate a Venezia più di 150 opere. Il nuovo teatro fu eretto con «mirabil prestezza» nella stagione 1677/’78 dai fratelli Giovanni Carlo e l’abate Vincenzo Grimani di Santa Maria Formosa nipoti ed eredi di Giovanni, su progetto dell’architetto, pittore ed “ingegnere delle macchine” Tomaso Bezzi detto Stucchino su di un fondo nella parrocchia di San Giovanni Grisostomo di proprietà Balbi-Vecchia detto Ca’ Milion, dove si trovava la duecentesca casa dei Polo, distrutta da un incendio. Gli eredi Grimani con questo investimento stabilirono un diverso equilibrio nella strategia gestionale dei teatri pubblici veneziani governando con equilibrata accortezza le differenziate funzioni dei tre palcoscenici di loro proprietà: il San Samuele per la commedia, il Santi Giovanni e Paolo destinato a una produzione operistica popolare con modesto impegno monetario, entrambe classificate sale minori che se necessario avrebbero potuto essere sostenute dagli incassi del San Giovanni Grisostomo destinato a una frequentazione privilegiata con repertorio d’opera seria, che a sua volta in caso di necessità, essendone prevista una gestione con spesa onerosa, avrebbe potuto contare sui profitti delle due sale popolari. Una tattica congetturata per evitare concorrenza con i loro interessi e al tempo stesso dominare lo scenario operistico lagunare. Le finanze dei Grimani si presentavano solide e si potevano permettere un sistema ben coordinato, senza correre il rischio di dissesti finanziari. Il San Giovanni Grisostomo divenne il principale teatro della città, la più grande ed elegante sala con ricche decorazioni in stile classico, predisposte per compiacere la ricercatezza e il gusto proprio della nobile famiglia. Aveva cinque ordini di trenta palchi ciascuno e una vasta platea, dal centro del soffitto affrescato scendeva un’ora prima dello spettacolo un lampadario a quattro braccia con lo stemma dei Grimani: «il candeliere porta quattro grandi fiaccole di cera bianca che illuminano la sala e restano accese finché non si alza il sipario allora tutto svanisce (…) Quando lo spettacolo finisce questa macchina appare di nuovo per illuminare gli spettatori, e consentire loro di uscire con comodo e senza confusione». Si legge con qualche disuguaglianza: «Consta di 4 file di 110 loggie. Ha due loggioni in I fila ed uno grande in IV. La platea è capace di 960 persone; i loggioni di 880 e l’intero teatro di circa 2500». Dalla descrizione di Pierre Ortigue de Vaumorière ne conosciamo le misure esatte: «lunghezza 13 tese e 3 piedi, larghezza 10 tese e due piedi» (circa 27 metri per 20 metri e mezzo). L’inaugurazione avviene il 20 gennaio 1678 con il dramma Il Vespasiano di Carlo Pallavicino su libretto di Giulio Cesare Corradi e da subito il teatro si distingue, tra Sei e Settecento, quale punto d’incontro tra nobiltà e qualificato pubblico straniero, l'unico a non aver diminuito il costo del biglietto d’ingresso a conferma della funzione che i Grimani privilegiavano per le proprie attività, di prestigio, in segno d’affermazione e predominio. Si distinse anche favorito dai rapporti della famiglia in campo internazionale, che facilitavano l’ingaggio d’artisti d’oltralpe e grazie all’oculata gestione predominò per importanza presentando lavori dei più celebri compositori appositamente commissionati, definito «il più famoso Teatro d’Europa». Per assecondare il gusto di gran parte dei fruitori, a cui era gradita una programmazione tradizionale, si favorirono lavori di musicisti non aderenti a movimenti riformatori, bensì in continuità stilistica con una collaudata consuetudine, pur non mancando eccezioni, come per Alessandro Scarlatti che non fu apprezzato dal pubblico con Il Mitridate Eupatore ed Il trionfo della libertà; presentando nel 1709 Agrippina di Haendel opera talmente considerata da dover essere replicata per ben ventisette volte. La partecipazione del pubblico ne faceva un punto di riferimento per l’affermazione di ogni compositore o solista, quando una prediletta dal pubblico si esibiva in una celebre aria nella sala regnava il silenzio e al termine si gridava: «Sistu benedetta! Benedetto il pare che t’ha fatto». Nel 1737 Carlo Goldoni ricoprì la carica di “poeta di teatro” ed iniziarono ad essere presenti in cartellone numerosi lavori in prosa; nel secolo XVIII l’attività del teatro proseguì ininterrottamente con repertorio tradizionale comprendente soprattutto melodrammi, ma anche tragedie comiche e satiriche, drammi pastorali. La presenza di cantanti napoletani si faceva sempre più assidua e alle celebri primedonne si affiancarono i castrati con le loro sfide canore, tra i primi Nicolò Grimaldi, poi Farinelli e in seguito Luigi Marchesi, con partecipazione degli spettatori sempre vivace e nel 1750 per Le nozze di Ercole e Tebe di Nicola Porpora si assistette allo scontro tra sostenitori e detrattori dell’evirato cantore Caffarelli, con tale clamore che il Consiglio dovette intervenire con un’intera compagnia di “birri” per calmare gli animi. I librettisti si distinguevano tra nobili dilettanti e colti letterati, quest’ultimi vicini all’intemperie culturali/arcadiche di tendenze "riformate”. Le stagioni al San Giovanni Grisostomo proseguirono con successo, ma dal 1751 per il teatro eccessivamente “spendaccione” che aveva consumato cospicue risorse, iniziò una rapida decadenza a causa delle ampie dimensioni che ne rendevano difficoltosa la gestione. I Grimani decisero, quindi, di farne costruire un altro che fosse più piccolo, elegante e di più semplice amministrazione: il San Benedetto, dove riappropriarsi del primato nel campo dell'opera seria. Posizione che pose fine all’egemonia del San Giovanni ora gestito con ridotto impegno nell’investimento in stagioni liriche e presenza di artisti, limitandosi quasi esclusivamente a opere giocose e commedie. Nel 1756 fu restaurato da Antonio Codognato che aggiunse sessanta palchi e un “anfiteatro”. A segno dei tempi si facevano largo le idee illuministiche e massoniche, trovando sul palcoscenico del San Giovanni ampia risonanza, con mutevoli reazioni del pubblico e obbligando il tribunale degli inquisitori a frequenti interventi. Nuovi pensieri che rinnovavano antichi rancori, come nel 1777 in occasione della prima dell’opera Il sogno di Mustafà, quando una cantata di giovani turchi risvegliò nei veneziani la competizione atavica inasprita dalle più recenti guerre di Morea, scatenando fischi e urla tanto da far interrompere la recita e dal Consiglio dei X e chiudere il teatro per dodici sere. Nel 1785 in occasione della tragedia I coloni in Candia del patrizio veneziano Giovanni Pindemonte, fratello d’Ippolito, poeta e drammaturgo discusso per la sua adesione alle idee rivoluzionarie e membro della loggia veneziana di Saint-Jean de la Fidélité, il pubblico prese a pretesto l’argomento della ribellione dei Candiotti del 1363 per dimostrare avversità nei confronti degli ellenici provocando una formale protesta della colonia greca e il Consiglio dei X dovette sospenderne la programmazione, ammonendo l’impresario per: «non aver capito l’umor del pubblico». Simile reazione legata agli umori dei veneziani sarà nel 1795 al San Cassiano, quando Pietro il Grande calafato in Sardam riecheggiante un’imbarcazione della Compagnia Olandese delle Indie Orientali non poté essere replicata. Nella primavera 1797, dopo la caduta della Repubblica e a seguito dell'occupazione francese, l’”aristocratico” teatro fu affidato alla Municipalità provvisoria e da luglio a ottobre rinominato Teatro Civico, destinato a ospitare un repertorio d'ispirazione giacobina, fra i quattro teatri veneziani a non essere stati obbligati a chiudere. La famiglia Grimani vendette il San Giovanni Grisostomo nel 1819 a Giovanni Gallo, imprenditore che aveva già acquisito il San Benedetto e nel 1815 aperto il Teatro Arena Gallo (1815-1820), figura che a inizio Ottocento, tra dominazioni di Francia e Austria, si era affermata nella vita teatrale veneziana: «qualcosa di mezzo tra l'imprenditore, l'artista e il mecenate» e a Luigi Facchini che aveva gestito l’ultima stagione al San Moisè, chiuso nel 1818. Giovanni Gallo, dopo aver liquidato il socio, nel 1834, si adoperò per riportare il teatro all'antico splendore restaurandolo; apertura nel 1819 con La gazza ladra di Rossini. Dopo più di un decennio e a causa delle condizioni deteriorate, si decise di modificarlo su disegno dell’architetto Andrea Salvadori, da potersi utilizzare anche per spettacoli diurni, includendo per la prima volta a Venezia il loggione con sacrificio di un ordine di palchi. Rifatto, viene ribattezzato Teatro Emeronittio, ovvero oltre il tempo - aperto di giorno e di notte - inaugurato nel dicembre 1834 con L'elisir d'amore di Donizetti, offrendo spettacoli d’opera la sera, di giorno esercizi acrobatici e compagnie equestri. Nel 1835 l’impresario Gallo scritturò per due serate Maria Garcìa Malibran, la cantante più famosa dell'epoca, la quale il 2 aprile diede una recita straordinaria a La Fenice e il successivo 8 cantò all’Emeronittio addobbato a festa ne La sonnambula di Vincenzo Bellini, rinunciando al compenso; a settembre l’immatura scomparsa a Parigi del compositore. Due anni dopo a seguito di una caduta da cavallo il celebre soprano morì a soli ventott'anni; in segno di gratitudine per la generosità dimostrata e in omaggio alla sua arte il teatro le fu dedicato. Per ricordare questo evento nel 1984 a circa centocinquant’anni, June Anderson fu chiamata per cantarvi Amina in omaggio a Maria Malibran. Nel 1844 alla morte di Giovanni Gallo il teatro passerà al figlio Antonio, violinista e direttore d'orchestra che s’impegnò nel migliorare il livello artistico degli spettacoli con particolare attenzione al repertorio lirico e alla promozione di giovani talenti, dedicando maggior spazio alle stagioni d’opera. Nell'autunno 1852 fece rinnovare le decorazioni della sala ed aggiungere al centro del soffitto una grande «lumiera che con la gran copia di luce (…) accresce la pompa e la bellezza dello spettacolo». Amico personale di Giuseppe Verdi, ne conseguì le prime veneziane: nel 1854 I due Foscari e la versione rivista e definitiva de La traviata l’anno successivo l’infelice debutto a La Fenice. Nel 1886 alla scomparsa di Antonio Gallo il Teatro Malibran fu messo all'asta assieme all’ex San Benedetto ora Teatro Rossini ed entrambi aggiudicati alla ditta di appaltatori teatrali Merkel, Baldanello e Patrizio, la cui organizzazione per via successoria ne mantenne il possesso per lungo tempo. Fu riaperto nel 1890 dopo un radicale restauro che ne mutò sostanzialmente la fisionomia, con la sala decorata in stile egiziano. Nella primavera del 1913 il Malibran fu nuovamente chiuso a causa di problemi legati alla sicurezza, bandito un concorso nazionale per il progetto di rifacimento dell’interno con il vincolo di conservare i muri perimetrali, vinto dal giovane ingegnere Mauro Felice Donghi. A causa della Prima guerra mondiale i lavori vennero sospesi e il Malibran riaperto nel dicembre 1919 con un'edizione di Otello di Verdi; l'attività proseguì per tutta la prima metà del XX secolo alternando lirica, operetta e spettacoli cinematografici. Di proprietà ora dei Baldissera Treves de' Bonfili associati dell'ICSA (Società di produzione cinematografica) che l’avevano gestito nel dopoguerra assieme al Teatro Goldoni, al Cinema/Teatro Rossini e Italia, nel 1992 venne acquistato dal Comune di Venezia che indicò nell’architetto Antonio Foscari il responsabile per la realizzazione dell’articolato progetto di risanamento. Il programma tardò ad essere approvato, ma a causa dell'incendio che renderà inagibile La Fenice nel gennaio 1996 si renderà necessario accelerarne il compimento restituendo dignità all'antico teatro veneziano, realizzando una sala con capacità di novecento posti idonea a ospitare gli organici de La Fenice e allestire spettacoli. Un importante contributo giunge dall'Associazione Amici della Fenice sostenitori del restauro conservativo del sipario storico, opera di Giuseppe Cherubini del 1919. Su iniziativa dell’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini nel 2014 viene presentato al Malibran, per la prima volta a Venezia, uno spettacolo del Balletto Reale di Cambogia. Nel 2020, con i lavori di riqualificazione, il teatro ha potuto celebrare una vera e propria ulteriore “inaugurazione”, con palcoscenico modernizzato e una buca d’orchestra più ampia e rialzata. Dopo la riapertura de La Fenice restituita alla città dopo l’incendio, è oggi il secondo palcoscenico della Fondazione Lirica veneziana: la “casa ”sorella”.
TEATRI MINORI, tra CINQUE - SEI e SETTECENTO
Del 1560 fu progettato dall’ingegnere idraulico Alvise Cornaro un teatro illusorio, pensato come una grandiosa isola/teatro visibile da piazza San Marco «sarà con fare uno theatro di pietra grande e commodo per tutti quelli a tali spettacoli e feste», proposta respinta dai Savi ed esecutori alle Acque. Dopo più di quattrocento anni, probabilmente, ispirò l’architetto Aldo Rossi per il galleggiante Teatro del Mondo, realizzato per le manifestazioni della Biennale del 1980, successivamente smontato.
A Venezia fiorino nei secoli luoghi per lo spettacolo di piccole dimensioni, ricavati in stanze d’abitazioni private o cortili, alcuni di vasta popolarità tra cui due teatri ai Santi Apostoli. Di un primo se ne ha notizia dal 1649 «in una casa assai capace di Ca' Bellegno», probabilmente in calle dei Proverbi o calle Larga dove «con doi lire si si godeva in un portico»; vi si rappresentò L’Orontea, già eseguita alTeatro di corte Innsbruck, con musica del frate Marc’Antonio Cesti e poesia di Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni; l'ultimo dramma per musica di cui si ha notizia è del gennaio 1688 con il nuovo allestimento de La Floridea attribuita a Pietro Simone Agostini oppure a Francesco Rossi o anche Lodovico Brusca su libretto di Giulio Pancieri e/o Pietro Manni.L’altro Teatro ai Santi Apostoli in calle dell'Oca fu operante dal 1650, ricavato da un magazzino; inizialmente destinato a compagnie comiche; nel «Teatro Novissimo dei Santi Apostoli» per la stagione di Carnevale del 1707 vi fu cantato per la prima volta il dramma pastorale Prassitele in Gnido con musica di Girolamo Polani e poesia di Aurelio Aureli.
Nella seconda metà del Seicento aprirono e chiusero molteplici sale: Il Teatro di San Gregorio alli Saloni fu edificato nel 1670 in contrada di San Gregorio, dotato di pochi palchi «solo alcuni in faccia alla Scena», gestito da una società di accademici per rappresentarvi commedie scritte da loro stessi, avvolte con «prologhi ed intermedij in musica» e drammi; il primo L'Adelaide regia principessa di Susa di Giovan Battista Rodoteo; rimase in attività fino all'anno 1689, quindi chiuso e lo spazio adibito a magazzini per conservare il sale.
Altro è il Teatro alle Zattere, nel lungomare omonimo dove era una “Casa particolare”; il 5 maggio 1679 vi debuttò quale compositore il cantore/contraltista Francesco Antonio Mamiliano Pistocchi detto il Pistocchino con il dramma per musica Il Leandro su libretto di Camillo Badoer (Badovero), rappresentato con figure di legno, cantando «i Musici dietro le scene».
Il Teatro Ognissanti dove nel 1679 si presentò in replica il Leandro, sempre con figure di legno azionate da un particolare marchingegno, lo stesso lavoro che era stato eseguito precedentemente al Teatro delle Zattere. Un genere di spettacolo che destò interesse, riproposto in diversi palcoscenici di minore rilevanza.
Il Teatro di Cannaregio nel 1680 fu impiantato su risoluzione del N.H. Marco Morosini sopra il fondo della famiglia Medici in calle del Portego; Il primo dramma per musica a esservi recitato fu nel 1679 L'Ermelinda di Carlo Fedeli su testo dello stesso Marco Morosini «consecrata all'Illustriss., & Eccellentiss. Sign. Marco Contarini dignissimo procurator di San Marco»; in attività per più di venti anni, venne smantellato nel 1699.
Nel teatro allestito nel giardino di palazzo Altieri si eseguivano dei pastiche con il contributo di diversi compositori e librettisti anonimi; nel 1690 Gli amori fortunati negli equivoci e la pastorale per musica Felicità d'Imenei dal Destino per celebrare le nozze di Emilio Altieri con Costanza Chigi svoltesi anteriormente a Roma, con libretto pubblicato a Venezia nel 1697 su testo attribuibile ad Antonio Arcoleo con il contributo di autori vari.
Da una delle abitazione dei Michiel su di un fondo dei Zustinian era stato ricavato il Teatro di San Fantin, dotato di tre ordini con ventitré palchi ciascuno e decorazioni allo stile “francese”; aperto nel 1699 con Paolo Emilio su poesia di Francesco Rossi e musica dell’abate Pietro Romolo Pignatta avventuroso compositore e librettista in quegli anni alle dipendenze del principe Eggenberg, a Venezia per allestirvi i propri «drammi musicali»; le attività del teatro si protrarranno per circa venti anni, sia pure presentando opere minori.
Un unico anno di attività nel 1700 per Il teatro in una casa privata a S. Moisé, quando vi fu rappresentato il dramma musicale Il vanto d'onore con testo e musica dell'abate don Pietro Romolo Pignata.
Dal 1727 il Teatro Santa Margarita in campo Carmini a Ca’ Guoro, ricavato in una casa privata: «un galante Teatro (…) piccolo, ma di elegante struttura», con programmazione riservata alla commedia e dall’autunno 1729 all’opera, iniziando con la pastorale eroica Dori su libretto dell’abate Pietro d’Averara con l’apporto di diversi compositori; nel 1731 Armida al campo d’Egitto di Vivaldi la cui prima si era tenuta anni prima al San Moisè.
Il Teatro di San Girolamo, disegnato in miniatura su modello del San Giovanni Grisostomo, fu fatto costruire dall'abate Antonio Labia in una sala del suo casino; restò in attività per due anni tra 1746 e il ‘48 con drammi in musica concepiti appositamente per questo particolare palcoscenico; a recitare erano delle marionette (Figurine di Legno) ed i solisti cantavano dietro la scena; venne inaugurato con Lo starnuto d'Ercole, composizione a quattro mani di Andrea Adolfati e Johann Adolf Hasse.
Il Teatro a Murano di metà del Seicento, era situato nel centro abitato della laguna «nel luogo dove si fa Pescaria», probabilmente edificato dove si trovava un magazzino, dotato di due ordini di palchi; restò aperto per diversi decenni, almeno sino al 1692 e vi furono eseguiti svariati drammi in musica.
TEATRO SAN BENEDETTO poi ROSSINI
Nel 1753, poiché la gestione del San Giovanni Grisostomo si mostrava sempre più onerosa ed impegnativa con programmazione impoverita per mancati investimenti, i Grimani si persuasero fosse arrivato il momento di costruirne un nuovo teatro, che fosse più piccolo e agevolmente gestibile, dedicato esclusivamente all’opera seria. L’obiettivo era di poter contare su di un quarto teatro di proprietà, che si distinguesse nel rinnovato panorama della città quale il più autorevole per l’opera drammatica e a questo scopo Zuan Carlo dei Grimani di Santa Maria Formosa promosse la costruzione del San Benedetto o Beneto, su un fondo di proprietà delle famiglie Venier ai Gesuiti e Tiepolo, con progettista l’architetto Giovan Francesco Costa che ne fu anche il primo scenografo, un teatro che fosse: «nobile, decorso e comodo (…) avendo principalmente in mira che la città sia decorata da un’opera seria». Un ponte costruito appositamente ne avrebbe consentito l’ingresso mentre, come da tradizione, i nobili e gli ospiti di riguardo avrebbero potuto usufruire dell’accesso riservato con attracco per le gondole. Fabbricato in mattoni, l’interno si mostrava a pianta quasi circolare con palcoscenico ben attrezzato e di ampia recettività; inaugurazione nel dicembre del 1755 con Zoe di Gioacchino Cocchi su libretto, si presume postumo, del veneziano Francesco Silvani letterato stimato dai fratelli Grimani. L'apertura accelerò il declino del precedente San Giovanni Grisostomo, nel gioco incessante di doversi avvalere del favore di un pubblico vanitoso nel reclamare sempre “nuove” o “nuovissime” offerte. Ragguardevoli i cartelloni delle prime stagioni, con titoli di Baldassarre Gallupi, Johann Adolph Hasse, Giuseppe Scarlatti e molti altri. Nel 1767Michiel Grimani e fratelli per sopraggiunte difficoltà economiche lo cedettero a ottantacinque cavalieri titolari dei palchi costituitisi appositamente in società, decisione in disaccordo con la famiglia Venier proprietaria di una parte del terreno, che avvierà una vertenza. Nella notte del 5 febbraio 1774 un violento incendio distrugge l’interno, rendendolo inagibile: «Xe andà in aria el teatro San Beneto/ Consumà dale fiame; el xe andà zo/ Cussì a la presta, che in un’ora o do/ L’è restà ischeletrio col muro schieto» (di Angelo Maria Labia). Venne ricostruito a spese dell’impresa societaria, di cui facevano parte anche i Venier, su disegno dall’architetto Pietro Checchia stimato come uno dei migliori d’Italia, con sala a ferro di cavallo e pianta a racchetta, di curvatura ai due terzi della lunghezza della platea, cinque ordini con trentuno palchi ciascuno, capace in totale di milletrecento posti; il palcoscenico il più grande e il meglio attrezzato di Venezia, tra i primi in Europa a disporre di un sipario a tendina che scendeva tra gli atti. Nel dicembre dello stesso anno l’inaugurazione con il dramma L’Olimpiade su libretto di Metastasio nell’occasione musicato da Pasquale Anfossi. Fu così che il San Benedetto, in veste sfolgorante, si affermava quale primo teatro veneziano riservato all’opera seria a cui si aggiunsero spettacoli di balletto. Anche qui soffiavano i venti della riforma e all’epoca a Venezia erano in attività sette oppure otto teatri, di cui cinque o sei per la musica e sempre due per la commedia, un numero considerevole per cui gli Inquisitori dello Stato avevano un bel da fare per sorvegliare il rispetto delle regole e circoscrivere quelle idee che venivano dalla Francia, che avrebbero potuto: «traviare l’animo de li sudditi fedeli». Gli addetti al controllo degli spettacoli incrementarono la vigilanza, infiltrando tra il pubblico degli osservatori, eppure come venne scritto su Il Gazzettino: «oramai i costumi erano troppo corrotti e le idee di Francia facevano strada nelle lagune». L’attività teatrale veneziana proseguiva negli ultimi anni del Settecento arricchendosi di nuovi generi: non più solo commedie e opere in musica, ma anche opere buffe, intermezzi comici, balli; il teatro è luogo di ritrovo e divertimento, quanto dedito allo scambio di idee che gli Inquisitori di Stato vedono con crescente sospetto. Spettatori, attori, impresari vengono costantemente osservati dai confidenti, le spie s’insinuano tra il pubblico per riferire sull’osservanza delle prescrizioni, tra questi Giacomo Casanova già giovane orchestrale al San Samuele e moralizzatore al San Cassiano Nuovo dei Tron, ora al servizio dei censori. In occasione di un ballo al San Benedetto nel 1776 il celebre “avventuriero” riferisce: «Il ballo Coriolano seminò nelle menti un certo spirito di rivolta che fe’ nascere sinistri e discorsi temerari ragionamenti». Gli inquisitori si ostinano ancor più nella repressione e vogliono infierire anche arginando le consuetudini dell’abbigliamento, ritenuto indecoroso di un pubblico che, per tradizione, si mostra restio al conformismo. Impongono al ceto patrizio di recarsi in teatro esclusivamente con la maschera sul viso e in costume; la maschera era indossata dai veneziani per gran parte dell'anno, abitudine antica di cui ci si serviva per rendersi irriconoscibili, con tale smodatezza da essere stata in passato soggetta a limitazioni e divieti, al contrario del novembre 1776 quando gli Inquisitori di Stato prescrissero ai patrizi di recarsi a teatro esclusivamente in maschera, estendendo l’obbligo il successivo dicembre alle donne appartenenti alla nobiltà e alle altre «di onesta e civile condizione» d’indossare un costume e di coprire il volto, con la motivazione di proteggere «l’onore di famiglia», ad eccezione da quelle in età da marito, moralizzando gli abbigliamenti alla moda dell’epoca considerati troppo disinibiti. Il 18 novembre il segretario degli Inquisitori aveva richiamato diversi impresari, fra cui quello del San Benedetto, per «precettarli nel modo più resolutivo e preciso di non permettere ai patrizi, niuno eccettuato, l’ingresso ai teatri, quando non siano vestiti in maschera con l’abito solito usarsi come vuol la legge». L’autorità tendeva a limitare «la licenziosa troppo avanzata libertà con la quale comparivano nei teatri le nobildonne vestite con la massima indecenza», imponendo che si presentassero in baùta (mantelletto per di più nero di seta o velluto indossato sia dagli uomini che dalle donne) che prevede il tricorno, il tabarro e per estensione la larva o volto, ma i nobili «in spregio alle pubbliche leggi» se entravano in maschera se la toglievano subito dopo mostrandosi in pubblico liberamente. La sera del 20 dicembre si arrivò a multare quattro nobildonne con l’ammenda di trenta ducati e l’interdizione dalle sale per trenta sere. Già il confidente Camillo Pasini aveva riferito di alcuni illeciti al San Benedetto e in altre sale: «In obbedienza a’ Venerati Comandi umilmente riferisco di esser stato giovedì sera al Teatro Sant’Angelo e di aver veduto entrare donne in tabarino con mascara sopra il viso, propriamente vestite, e senza (…) Ho rilevato poi da persone, che nel Teatro di San Luca entrarono tre donne in tabarino, senza volto, propriamente vestite, e moltissime altre in tabarino ma con il volto (…) Ed ho rilevato che per tutti li Teatri ne entrano in tabarino e con volto e senza, fuorché a San Moisé perché furono fatte tornare indietro molte persone che erano in tabarino». Sarà il Governo austriaco ad annullare la disposizione e limitare l’uso della maschera alle feste private o in particolari eventi, quali il gran ballo a La Fenice del 1819. Il teatro è sempre più luogo di rappresentanza della Serenissima dove è d’obbligo tutelare il decoro dei costumi e tenere a freno le intemperanze rivoltose, regolandone le attività e frequentazioni; del 1782 e anni successivi sono conservati gli elenchi dei palchi nei principali teatri che il Doge assegnava ad autorità forestiere, con precise norme sul protocollo da adottare a seconda dell’importanza del dignitario; altro intervento sarà nel febbraio 1789, quando il Consiglio dei X disporrà che venga proibito in tutto lo Stato la facoltà ad impresari o direttori di teatri di concedere ai cantanti e ballerini la speciale gratificazione chiamata Serrata o Benefizio. Ai problemi di carattere sociale e di costume per il San Benedetto si dovette affrontare la vertenza legata alla legittima proprietà, con i fratelli Nicolò ed Alvise Venier detentori del terreno dove era stato eretto il teatro che avevano avviano la causa contro i palchettisti, appellandosi a un’antica legge nota come “legge delle 12 tavole” dove era stabilito che chiunque avesse costruito un edificio su di un fondo di altrui proprietà non ne avrebbe potuto mantenerne il possesso, chiedendo e ottenendo che l’atto di cessione del San Benedetto dai Grimani alla Società fosse annullato e di essere riconosciuti proprietari dell’immobile. Fu così che l’8 giugno del 1787 i componenti della Nobile Società, dopo che i magistrati della Quarantia Civil Nova imposero di cedere l’edifico, furono costretti a rinunciare al San Benedetto quale loro sede. I soci si sentirono esclusi da quello che ritenevano un diritto, dando immediato incarico ai propri presidenti di «procedere alle ricognizioni preliminari» per la costruzione di un nuovo teatro, che sarà La Fenice. Tornato di loro proprietà esclusiva i Venier lo ribattezzarono dal nome del casato e il teatro mantenne una posizione prioritaria per più di due decenni, con attività operistica di genere sia serio, sia comico a cui si affiancherà dal 1803 quella di prosa. Nel 1810 fu acquistato da Giovanni Gallo che lo rinnovò intitolandolo a suo nome; tra gli eventi di maggior rilievo la presenza di Gioachino Rossini con le prime esecuzioni assolute de L’italiana in Algeri nel 1813 e di Edoardo e Cristina nel 1819. Alla morte di Giovanni Gallo nel 1844, erede è il figlio Antonio che da musicista con funzioni impresariali si dedicherà con particolare impegno alla riqualificazione delle attività dei teatri di cui era divenuto proprietario, oltre al San Benedetto il Malibran. Ristrutturato nel 1847 dall’architetto Giuseppe Jappelli, pur continuando ad offrire spettacoli di qualità ed a ospitare rinomate compagnie, il prestigio era ormai irrimediabilmente pregiudicato dalla centralità dell’affermato Teatro La Fenice. Alla morte di Gioachino Rossini nel 1868, si volle dedicarlo alla sua memoria, aveva scritto Stendhal con un’iperbole: «Anche se il re imperatore Napoleone avesse onorato Venezia con la sua presenza, il suo arrivo non avrebbe distratto il pubblico da Rossini». Venne nuovamente restaurato nel 1875 e alla morte di Antonio Gallo nel 1883 il Teatro Rossini, parimenti al Malibran, fu messo all'asta e anch’esso acquistato dagli imprenditori costituitisi in società Merkel, Baldanello e Patrizio che nel 1886 deliberarono per un ulteriore restauro. Ospiterà prime esecuzioni per Venezia, quali nel 1893 Pagliacci di Leoncavallo e nel 1897 La Bohème di Puccini. Nel 1927 venne ceduto alla Società Cinematografica Stefano Pittaluga che tramuterà il Rossini in cinema-varietà. Nel 1951, dopo esser stato venduto al barone Giacomo Baldissera Treves de' Bonfili, lo stesso che aveva acquistato il Goldoni e il Malibran, fu demolito e ricostruito in forma di cinema/teatro. Ulteriormente modificato nel 2012, utilizzato in parte quale multisala ed altra adattata a supermercato.
Il GRAN TEATRO LA FENICE
premessa
Percorre la storia del Gran Teatro La Fenice è realizzare un viaggio a partire dalla traumatica estromissione nel 1787 della Nobile Società di palchettisti dalla proprietà del San Benedetto, nell’ambizione di quei patrizi di poter contare su un nuovo teatro che fosse la massima espressione della Venezia neoclassica, luogo simbolo dell’identità urbana. Il teatro rappresenta uno degli emblemi di supremazia ed eleganza della città che vanta la Cappella Marciana, la Scuola e opera veneziana, dei tanti edifici storici, dove Claudio Monteverdi offrì gran parte dei suoi capolavori, dei compositori Giovanni Gabrielli, Giovanni Legrenzi ed il suo allievo Domenico Gabrielli, Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni, Antonio Vivaldi, patrimonio che si sarebbe andato ad accordare con il progetto di quel luogo che avrebbe rappresentato il valore morale ed artistico della pregevolezza veneziana. Il palcoscenico de La Fenice si consacrerà di fama internazionale, ospitando nell’arco di quasi tre secoli artisti eccelsi, promuovendo prime esecuzioni di compositori tra i più conosciuti e dei tanti di cui si è persa la memoria; con un pubblico che si distinse per esigenza, vivace e riottoso, arbitro di successi clamorosi e roboanti fallimenti. Lo scorrere degli avvenimenti vi si riferirà nella rappresentazione di luogo sempre accogliente e ribelle ai grandi stravolgimenti della storia, dal fervore illuministico la caduta della Repubblica Serenissima, i fasti dell’impero sotto Napoleone e gli Asburgo, agli impeti di vocazione romantica e risorgimentale, l’affacciarsi al Novecento e sino ad oggi. Due gli incendi distruttivi, il primo nel 1836 e il successivo in epoca tragicamente recente il 1996, eppure il sapore del rinnovamento prevarrà sempre sull’acre sentore di bruciato: affermandosi stilisticamente dal neoclassico all’Impero con impudenza al neobarocco, traversato dal neo-settecento e sino al neo-neoclassico, tragitti che in nulla hanno turbato il teatro in sensibilità architettoniche decadenti o istanze moderniste.
Il Teatro a San Fantin - La Fenice
Esclusi dalla famiglia Venier che si arrogò la proprietà del San Benedetto, i soci della Nobile Società diedero impulso all’edificazione del Teatro in campo San Fantin, poi La Fenice, privati da quello che ritenevano un diritto inalienabile, vittime di un vero e proprio affronto decisero di costruirne un altro che sarebbe stato il più grande, il più bello ed importante di Venezia. I soci, solo due giorni dopo l’esclusione dal San Benedetto con sentenza del 10 di giugno 1787, si riunirono prendendo la decisione che il “loro” teatro sarebbe stato: «nobile, decoroso e comodo (…) avendo principalmente in mira che la città sia decorata da un’opera seria». Venezia poteva vantare a metà Settecento di sette teatri principali, due dedicati al dramma e gli altri alla musica, troppi a parere dell’organo vigilante, a tal punto che il 10 novembre 1756 il Consiglio dei X aveva emesso una severa disposizione: «per il futuro non possa erriggersi nella Dominante, né nello stato, alcun teatro senza precisa permissione di questo Conseglio preposta, e presa con li 4/5, onde anche in questa materia sia proveduto al disordine». Non tenendo conto dell’ostacolo, o con influenti protezioni, i presidenti della Società inoltrarono l’8 agosto del 1787 la supplica per il nuovo edificio: «La Società del Teatro di San Benetto rivolge una supplica al Consiglio di Dieci per ottenere facoltà di erezione di un nuovo teatro atto a nobili trattenimenti e sovra ogni altro di decoroso ornamento alla Città». La richiesta fu approvata lo stesso giorno con specifica licenza che: «concede facoltà alla Società del Teatro di San Benetto, composta di sessantacinque Famiglie Patrizie e di venticinque di onesti Benestanti, il permesso di erigere un nuovo teatro sempre colla solita dipendenza dal Tribunale de’ Capi e sotto le discipline fissate dalle publiche Leggi nel proposito». Il successivo 14 dicembre settantasette soci si riunirono votando a piena maggioranza l’acquisto del terreno per dare avvio alla fabbrica, sostenendo che i tempi fossero maturi affinché la città lagunare potesse contare su di un teatro che ne rappresentasse la munificenza, da erigersi in zona centrale in pietra e mattoni. Il 21 febbraio veniva firmato il contratto con la Scuola Grande di San Rocco per cinquantaseimila ducati e ulteriori settantottomila con la Scuola di San Fantin per l’acquisto di gran parte degli edifici nelle contrade di Sant’Angelo e di Santa Maria Zobenigo, un investimento che si prevedeva elevato sommando alle spese per i terreni quelle da sostenere per l’edificazione, indicate in preventivo in duecentomila ducati, cifra nel corso dei lavori ampiamente superata. Per farvi fronte i palchettisti dovettero tassarsi più volte e il 21 settembre 1789 venne indetta un’ulteriore assemblea per ripartire la spesa tra i soci, calcolata in conformità di quella che sarebbe stata la posizione del palco assegnato, di esclusiva proprietà! L‘esigenza di portare il progetto a compimento era incalzante e già il primo novembre fu pubblicato il bando di concorso, diffuso tra «nazionali e forestieri (…) il più soddisfacente all’occhio ed all’orecchio degli spettatori». Le richieste vi erano esposte in quattordici punti, tra cui: «Per facilitare l’accesso via acqua è permesso aprire un canale retrostante (...) Deve esser largo non meno di 20 piedi e di comodo passaggio nei punti di obliqua direzione per la presenza di gondole -(lunghe 32 piedi)-; L’ingresso principale deve essere posto in campo S. Fantin (...) Dev’esserci un primo atrio di comune ingresso e un secondo alla porta del quale si pagherà il biglietto; Il teatro avrà cinque ordini di palchetti che si denominano pepiano, primo, secondo, terzo e quarto ordine o soffitta. Ogni ordine non avrà meno di 35 palchetti senza distinzione tra loro a differenza dei tre palchi centrali che saranno 3 oncie più larghi degli altri e lo stesso si farà per il palchetto di mezzo di ciascun ordine». Si chiedeva un salone per le feste e per i veglioni di Carnevale e altre servitù. L’elevato numero di palchi e la comodità d’utilizzo era essenziale per far quadrare il bilancio, essendo la fonte principale per sostenere le spese di costruzione. Le ambizioni erano elevate e i costi crescevano, la Nobile Società di Palchettisti voleva un teatro: «con scale di pietra, atri e palchi tutti salizati -(pavimentazione)-; con atrio magnifico di 80 piedi». Categorica la precauzione per prevenire quella che era stata la rovina del San Benedetto e di tanti altri teatri: «qualora l’architetto usi materiali lignei è necessario renderli il meno possibile esposti alla distruzione del fuoco e che siano previsti dei facili rimedi». Oltre al compenso si prometteva al vincitore: «una medaglia d’oro del peso di trecento zecchini». I tempi di consegna dei disegni con annesso modellino vennero fissati in quattro mesi, termine prorogato a sei. Nel frattempo i soci si assicurarono di completare gli acquisti delle aree necessarie, così come riportato in un documento del 1790: «I presidenti della Società per il nuovo teatro si aggiudicano la proprietà messa in vendita per pubblico incanto, di un terreno ubicato sopra il campo di San Fantin, con alcune botteghe e casette in stato cadente, rovinoso e puntellato a riparo d’imminenti rovine di proprietà del patrizio Alessandro Molin». Allo scadere del termine risultarono essere stati presentati ventinove progetti e il 20 maggio 1790 i soci, riuniti nella sale dell’Accademia dei Filarmonici con settantadue favorevoli e ventotto contrari, indicarono vincente quello di Antonio Selva, che aveva presentato alla giuria un disegno valutato razionale e con decorazioni appropriate, per dimensioni ed elaborazione della «curva teatrale», praticità d’approdo delle gondole, un’architettura nobile quanto discreta ben integrata nella misura urbana di Venezia. Con il progetto venne consegnato dal Selva un modellino ligneo, a tutt'oggi conservato e recentemente restaurato. Non mancarono contrarietà, come quella dell’architetto Angelo Fossati che aveva rifiutato di partecipare alla gara preferendo esporre il suo progetto presso il monastero di San Zaccaria: «il più bello, senza confronto di tutti gli altri presentati». L’ostilità dell’architetto Pietro Bianchi, il quale impugnò la decisione di essere stato escluso, convinto che il proprio lavoro fosse il migliore e il più aderente alle indicazioni del bando. Fece causa e la vertenza si protrasse per due mesi, sino a raggiungere il compromesso nel riconoscergli il premio di trecento zecchini d’oro, mentre al Selva si confermava l’incarico di erigere il teatro. I lavori durarono ventisette mesi, solamente diciotto se riferiti alla fabbrica e il 16 maggio 1792 il teatro era pronto per la serata inaugurale. La data scelta riassumeva il significato di ricorrenza religiosa convergente in una delle celebrazioni tradizionali della Serenissima: la Festa della Sensa (Ascensione) con il rito celebrativo della Repubblica dello sposalizio con il mare. Alla presenza dei sessantanove palchettisti che lo avevano sostenuto il Teatro La Fenice veniva inaugurato con il dramma in musica I giuochi d'Agrigento di Giovanni Paisiello su libretto di Alessandro Pepoli, come d’uso accompagnato da un balletto: Amore e Psiche di Onorato Viganò musicato da Giulio Viganò. Lo spettacolo venne accolto con favore, nonostante le poche prove e alcuni inconvenienti che si verificarono durante la rappresentazione, così che il nuovo teatro «d’elegante aspetto architettonico-decorativo» si qualificò preminente rispetto a qualsiasi altro di Venezia. In stile razionalista-neoclassico, la sala a forma di ferro di cavallo era stata realizzata in linea con la tradizione veneziana, mostrandosi con sviluppo della forma in soluzione originale, architettura che suscitò ammirazione e critiche, ritenuta da alcuni «arditamente avveniristica»; il Selva era stato costretto ad attenersi nella realizzazione a un’area delimitata, sacrificando alcune pertinenze a favore delle proporzioni e l’armoniosità dell’insieme. l’interno si offriva spazioso con un unico accesso alla sala dotata di cinque ordini di palchetti con balaustre abbellite al «gusto delle nuove mode» di rilievi dorati e medaglioni dipinti, per una capienza complessiva di circa millecinquecento posti. La decorazione era stata affidata allo scenografo Francesco Fontanesi, autore anche del soffitto a pergola dipinto con prospettiva di apertura verso un cielo popolato da Genj. Al Fontanesi fu riservata, inoltre, la realizzazione di uno dei sipari raffigurante L’armonia tirata in cocchio da due cigni; un secondo telo fu realizzato da Pietro Gonzaga con illustrazione storico-allegorica. Non esisteva loggione. Per il lavoro furono coinvolti «eletti artieri di Venezia - (che) - misero a contribuzione la propria industria»: i migliori intagliatori, pittori, stuccatori e doratori, artigiani che nel trasmettere la loro arte si riveleranno insostituibili nel trasmettere l’arte nei secoli, rivelandosi fondamentali per i successivi restauri e ricostruzioni. Il cronista della Gazzetta Urbana Veneta scrisse: «(...) ha tutti i requisiti che son necessari all'effetto; chiarezza di tinte, armonia, solidità e leggerezza cose difficili a combinarsi, e che mirabilmente s'uniscono in questo lavoro». Si contavano centosettantaquattro palchi tutti identici e senza il centrale, rispondendo oltre all’attento canone di unità stilistica, alle sollecitazioni dell’inquieta opinione pubblica in cui si rafforzavano ideali riformisti di fine Settecento. Intellettualità illuministica animata dal letterato e politico Andrea Memmo, tra i maggiori promotori della costruzione del teatro, che in fase progettuale aveva imposto che l’edificio corrispondesse nel rigore della forma a simbolo di ruolo democratico del teatro, emancipato da: «ogni sorta d’ornato, che interromper potesse in qualunque modo la voce, e spezialmente li parati di seta, di teleria, di carte». Emblematica si rivelò la piccola statua di una fenice ad ali spiegate su manto di velluto blu notte ricamata con fili d'oro, l'uccello mitologico noto per la capacità di rinascere dalle proprie ceneri, in allusione ai problemi legali e all'incendio del San Benedetto e quale atto di rivincita dei palchettisti del torto subito, simbolo che si riproporrà emblematicamente sia in occasione dell’incendio distruttivo nel 1836, sia per le fiamme del 1996. Per la scelta del nome, inoltre, è da tener conto che molti soci appartenenti alla massoneria avrebbero influenzato la realizzazione della struttura dando precise indicazioni, intervenendo poi sulla programmazione, nonché sulla scelta del simbolo legato al culto di Osiride. Scriverà il drammaturgo madrileno Leandro Fernandez in visita nella città lagunare: «Questo è il teatro più moderno di Venezia, grande, comodo ed elegante, con una facciata regolare che dà in piazza San Fantino; la sala è molto spaziosa, di forma quasi ellittica, tagliata dal boccascena, con decoro e buon gusto». Non mancarono pareri sarcastici, riassunti in un sonetto d’anonimo: «Belle pietre, bei legnami/ Bassa orchestra, i Palchi infami/Scale nuove e d’invenzion/per taverna e per prison (…)». Non piacque che i palchi fossero tutti uguali ostentando un concetto repubblicano, con decorazioni troppo semplici; altri lamentarono la facciata disadorna con pronao neoclassico a quattro colonne. Alle stagioni de La Fenice furono riservati titoli d’opera seria, il genere più prestigioso, mentre i programmi delle altre sale erano relegati perlopiù ad opere del repertorio buffo. Il teatro fu da subito punto di riferimento per la città, luogo d’incontro e discussione sugli incombenti avvenimenti; erano gli anni di radicale sconvolgimento in Europa dopo la presa della Bastiglia del 1789, solo cinque anni separavano l’inaugurazione de La Fenice dalla fine della Serenissima. Gli spettacoli successivi all'inaugurazione, tuttavia, non furono memorabili, nonostante i frequenti allestimenti di opere appositamente commissionate a musicisti quali Giovanni Simone Mayr con Saffo nel 1794 e a Domenico Cimarosa con Gli Orazi e i Curiazi nella stagione 1796/’97, oltre a molte altre novità assolute, vantando la presenza delle più celebri voci. Le gestioni si avvicendavano con crescenti difficoltà economiche a causa delle eccessive pretese degli impresari che volevano distinguersi nel primeggiare nell’offerta, a causa degli spropositati compensi riconosciuti ai virtuosi per appagare il fanatismo del pubblico a cui si aggiunsero, in quel clima d’incertezza, le difficoltà per rientrare dalle spese sostenute nella costruzione. Si arrivò a un suicidio, l’impresario Michele Dall’Agata conosciuto per aveva lavorato al San Benedetto, non riuscendo a sostenete il bilancio, si tolse la vita avvelenandosi il primo giorno della Quaresima del 1794. Durante la Serenissima Repubblica di Venezia dell’ultimo doge Ludovico Manin, l’attività teatrale fu quasi sospesa, fatta eccezione per alcune rappresentazioni di carattere patriottico finalizzate alla raccolta di fondi da destinarsi in beneficenza. La situazione non migliorò con la caduta della Repubblica e l’ingresso dei francesi nel 1797, durante il periodo di Governo della Municipalità Provvisoria il teatro fu scelto come luogo di rappresentanza per manifestazioni pubbliche quali le Feste di ammaestramento civile della celebrazione democratica e ugualitaria, serate musicali e balli gratuiti. Con il Trattato di Campoformio nell’ottobre del 1797 i francesi lasciavano la città e nasceva la Provincia Veneta dell’Austria e per La Fenice la situazione economica si aggrava ulteriormente, sia per l’aumento del costo della vita, sia per le contribuzioni per il mantenimento dell’esercito; di conseguenza viene snellito il corpo di ballo e tra gli artisti non si registra nessun nome di rilievo. Il 25 novembre 1800 gli austriaci impongono una tassa sugli ingressi ai teatri, portando a temporanee chiusure, ma nonostante le ristrettezze le stagioni, pur limitatamente, proseguono con tragedie per musica e balli storici. Nel 1801 nel “Nobilissimo Teatro La Fenice” due titoli di compositori di scuola napoletana, per la stagione di Carnevale il 17 gennaio la prima assoluta di Artemisia di Domenico Cimarosa con libretto di Giovanni Battista Coloredo, rappresentata postuma e non completata a solo una settimana dalla scomparsa del compositore in esilio a Venezia a palazzo Duodo a Sant’Angelo, si sospettò avvelenato dai sicari di Maria Carolina regina delle Due Sicilie, seguita l’8 febbraio in orario notturno dalla replica del dramma per musica I guochi di Agrigento,eseguito per la prima volta nel 1792 sempre a La Fenice, con poesia di Giovanni Pepoli e musica di Giovanni Paisiello, compositore in attesa del “reintegro” da parte dei Borbone, essendo stato punito per aver partecipato alla Repubblica Napoletana. Durante la seconda dominazione francese nel 1806 venne permesso che si allestissero nella sale attigue alla cavea giochi d’azzardo, parimenti di quanto autorizzato a Milano e Napoli. Scrive Stendhal: «quelli che tenevano banco facevano ottimi affari e le casse del teatro introitavano grosse somme». Con decreto del 1807 i teatri veneziani sono ridotti a quattro: La Fenice, il San Benedetto, il San Moisè e il San Giovanni Grisostomo, vengono fatti chiudere il San Luca e il San Samuele, sacrificati e destinati alla demolizione il San Cassiano e il Sant’Angelo. Si prosegue limitandosi al solo periodo di Carnevale, dovendo interrompere in più occasioni la stagione a seguito della grave situazione economica venutasi a creare a Venezia, causa i rivolgimenti insurrezionali. La Fenice assumeva le funzioni di Teatro di Stato diventando luogo per eventi di rappresentanza e in previsione dell’arrivo di Napoleone Bonaparte a Venezia, in mancanza di un palco centrale, vi si allestì una loggia provvisoria con il dio Apollo seduto su di un cocchio. Il primo dicembre 1807 l’imperatore fu accolto a La Fenice con l’esecuzione della cantata Il giudizio di Giove di Lauro Corniani Algarotti; la sala per l’occasione era stata addobbata in celeste e argento, assecondando il gusto del nuovo stile Impero. L’anno successivo per ovviare alla mancanza della loggia di rappresentanza il Governo stanziò un’ingente somma indicendo un concorso per la costruzione del palco centrale e per una più confacente decorazione della sala, allo stesso modo di come si era deciso per La Scala di Milano. L’incarico di progettare la struttura dell’imponente loggia fu assegnato al Selva, sacrificando tre palchi del primo ordine e tre del secondo, affidandone la decorazione a Giovanni Carlo Bevilacqua con motivi di smaccato contenuto ideologico. Per sostituire le decorazioni, l'Accademia di Belle Arti tra i cui membri il Selva, aveva nel frattempo bandito un concorso vinto dall’ornatista Giuseppe Borsato, il cui progetto prevedeva il rifacimento della sala in marcato stile Impero, ridipingendo il soffitto con Il trionfo di Apollo sul cocchio con medaglioni e fregi, soggetto allusivo al nuovo potente che nella migliore tradizione veniva assimilato al dio solare. Attorniavano la scena centrale dieci medaglioni con teste laureate e sul bordo quattro finti rilievi allusivi alla musica. Collaborarono alla decorazione altri pittori in qualità di "figuristi", tra cui Costantino Cedini incaricato del nuovo sipario. Il 26 dicembre 1808 i lavori sono terminati e il teatro viene riaperto «splendente per la profusione d'intagli dorati, ricche stoffe, specchi, grande stemma» con maestosa la nuova loggia imperiale, studiata per essere il fulcro della rinnovata sala teatrale. In scena l’azione eroica per musica Il ritorno di Ulisse di Johann Simon Mayr con libretto di Luigi Prividali, abbinata al ballo Gli Strelizzi di Salvatore Viganò. Si aprono le porte ai grandi compositori dell’Ottocento e l'affermazione veneziana del giovane Rossini era avvenuta grazie alle farse scritte dal 1810 per il Teatro di San Moisè e la fama raggiunta determinò la commissione per La Fenice del melodramma eroico Tancredi, rappresentato nel febbraio del 1813, prima funestata dall’indisposizione delle protagoniste Adelaide Malanotte nel ruolo del titolo ed Elisabetta Manfredini in quello di Amenaide, obbligando ad interrompere la recita a metà dell'atto secondo e si diffuse la voce che Tancredi fosse stato«un fiasco generale»; l’opera completa venne ascoltata solo dall'11 di febbraio ottenendo pieno consenso. Il successivo lavoro commissionato a Rossini fu nel 1814 il dramma Sigismondo, non accolto con particolare entusiasmo; per la seguente primizia del compositore si dovrà aspettare il 1823, con il trionfo del melodramma tragico Semiramide, protagonista la prima moglie del musicista Isabella Colbran, con tale affermazione da tenere il cartellone con ben ventotto repliche; fu questa l’ultima opera composta da Rossini prima dal congedo dall’Italia. Piacque a tutti, meno che a Stendhal che aveva avuto modo di ascoltarne una riduzione per pianoforte: «Il grado di germanismo di Zelmira non è niente in confronto a quello di Semiramide che Rossini ha dato a Venezia nel 1823. Mi sembra che Rossini abbia commesso un errore geografico. Quest’opera, che a Venezia ha evitato i fischi solo grazie al grande nome di Rossini (…) non mi rammarico affatto di non averla ascoltata a teatro; quello che ho sentito cantare al piano non mi è piaciuto per niente».Con la Restaurazione del 1815 Venezia era passata al regno Lombardo-Veneto e le condizioni del teatro, gradatamente, tornate alla normalità. Gli austriaci, per evitare una nuova proliferazione di sale per lo spettacolo e assicurarsene il controllo, dal settembre del 1820 proibiscono l’erezione di altri teatri, inoltre viene imposta una severa censura sui libretti delle opere in musica i cui testi dovevano essere sottoposti all’approvazione di un’apposita commissione, a cui il compito di approvare il cartellone, il calendario delle prove e di ritirare i passaporti dei cantanti, onde evitare che non rispettassero l’impegno preso e non favorire capricci ed assenze ingiustificate, di garantire l’igiene e di far attuare tutte minuziose verifiche per le misure antincendio. Un avviso della Direzione Generale di Polizia del gennaio 1819 informa: «S’apriranno in questo Carnovale le Sale annesse al gran Teatro della Fenice ad uso di Ridotto, ossian pubbliche feste da Ballo mascherate, e dal loro serale prodotto, offrì l’Impresa di corrispondere una congrua contribuzione a sollievo dei Poveri (…) Nessuno può entrare nelle Sale del Ridotto, se non è mascherato, od abbia almeno sul Cappello un segno visibile di maschera (…) Saranno respinte tutte quelle Maschere che non fossero decentemente vestite, e quelle che ne’ loro travestimenti, alcuno ne avessero, che offendesse il rispetto dovuto alla Religione ed alle istituzioni, ch’ella consacra (…) Saranno prese delle misure contro quelle Maschere, che si presentassero con Armi di qualunque sorta, e verranno, anco sul momento, arrestate se fossero delle specie vietata dalle veglianti Leggi. Non è lecito alle Coppie dei Ballerini di urtare, o di spingersi attraverso alla folla; Li Ballerini non possono sortire dalla linea stabilita all’intorno della Sala, né alterar l’ordine, e l’armonia del Ballo; E’ altresì severamente vietato d’insistere con grida, o battimento di mani, al cambiamento della Danza. Le Sale saranno aperte alle ore dieci (…) Il Ballo durerà sino alle ore quattro dopo la mezza notte». Il principe Klemens von Metternich, l’artefice della Restaurazione europea, assistette la sera del 16 dicembre 1822 a uno spettacolo: «sans pareil», definendo la loggia: «merveilleusement belle». Nel 1824 la prima assoluta de Il crociato in Egitto di Giacomo Meyerbeer; l’anno successivo le autorità espressero il loro: «malcontento per lo stato indecoroso nel quale era ridotta la sala teatrale a causa delle emanazioni delle lumiere ad olio». La Commissione dell’Accademia di Belle Arti fece avviare i lavori rinnovando l’incarico a Giuseppe Borsato, ora scenografo ufficiale del teatro; nella sala venne posto un grande lampadario che avrebbe garantito un’illuminazione centrale, riducendo così i danni del fumo derivante dai lumi laterali; il cocchio di Apollo è rimpiazzato con sensibilità romantica delle dodici ore della notte, mentre per i parapetti dei palchi si scelgono decorazioni con foglie di acanto, strumenti musicali, festoni, maschere e genietti. L'inaugurazione della sala, così trasformata, avviene il 27 dicembre 1828 con il dramma per musica Francesca da Rimini di Pietro Generali su libretto di Paolo Pola, assieme al ballo Alessandro nelle Indie di Salvatore Viganò. Dalla Gazzetta Privilegiata di Venezia: «La pittura del soffitto si lega a quella dei palchi per via di nobile quadratura con modiglioni, e rosoni dorati, la quale si appoggia alla mezza vetta disegnata a chiaroscuro di griffi, e di cigni. Un cotal vivace giallognolo, che si vorrebbe però meno caldo, e più d'accordo colle tinte del soffitto, colora l'esterno delle pareti dei palchi, e tutto il disegno consiste in variati ornamenti a chiaroscuro allusivi d'ordine in ordine, alla tragedia, alla musica ed alla mimica». Con la riapertura le finanze trovarono nuovo impulso, potendo contare sul sussidio della Congregazione Municipale e del privilegio esclusivo di «dare in carnevale opere serie, semiserie e balli eroici». Le stagioni si profilano ricche di titoli e novità, con prime assolute di autori minori e di maestri le cui composizioni faranno grande la storia artistica de La Fenice, non tutte accolte con entusiasmo nell’esuberanza e spirito critico di quel pubblico. La sera dell’11 marzo 1830 venne rappresentata in prima assoluta la tragedia lirica di Vincenzo Bellini I Capuleti e i Montecchi con Giuditta Grisi in Romeo e Rosalbina Carradori-Allan in Giulietta; immediato ed indiscusso il successo, in cartellone per otto recite, ma il 16 marzo 1833 per la successiva Beatrice di Tenda neanche la presenza di un’artista amata dal pubblico quale Giuditta Pasta poté salvare il compositore da un’amara delusione. Celebri nomi di cantanti vanno a formare una lista smisurata, fra i più rinomati Maria Malibran che nella stagione 1834/‘35 interpretò alla Fenice i ruoli di Norma, Rosina, Desdemona e Cenerentola. La cantante usava recarsi ogni sera a teatro in una gondola che aveva fatto appositamente ripitturare, perché il nero le sembrava funereo, di color grigio chiaro con interni oro e scarlatto, condotta da un gondoliere con costume dai colori sgargianti disegnato da lei stessa. Per Gaetano Donizetti si terranno a La Fenice tre prime, entusiasmando il pubblico il 4 febbraio del 1836 con Belisario; il secondo titolo Pia de’ Tolomei, però, si dovette dare il 18 febbraio 1837 al Teatro Apollo, perché La Fenice era stata distrutta da un incendio; tra le vicissitudini l’opera non riscosse il favore del pubblico. La Fenice era in rovina a causa delle fiamme, la causa del disastro fu individuata in una moderna stufa austriaca acquistata dai gestori il 18 settembre 1836, dalla quale a causa della cattiva installazione la notte fra il 12 e il 13 dicembre alle tre del mattino, terminate le prove di Lucia di Lammermoor, si era sviluppata una vampata di tali proporzioni da propagarsi all’intero edificio, spenta grazie alla catena di secchi con cui i veneziani avevano fatto arrivare l’acqua dai canali circostanti. Il fuoco arse per tre giorni e tre notti ed il teatro fu ridotto a un mucchio di macerie: crollato il tetto e la sala distrutta, si salvarono solo i muri perimetrali e le sale Apollinee. I mezzi a disposizione del regio Municipio non erano sufficienti per domare le fiamme e si dovette far intervenire la Marina, riuscendo a spegnere l’incendio. Immediata la reazione dei soci riuniti il 29 gennaio 1837 decidendo per un’immediata ricostruzione, affidata all’impresa dei fratelli Tommaso e Giovanni Battista Meduna, con incarico di rifarsi «sul disegno antico con miglioramenti» del Selva. Con il benestare del Governo austriaco il teatro fu ricostruito beneficiando del sostegno finanziario della Compagnia di Assicurazioni austro-italiana Generali, fondata pochi anni prima. Esattamente dopo trecentosettant’otto giorni dall’incendio, il 26 dicembre 1837 il Gran Teatro La Fenice riapriva con la tragedia lirica Rosmunda a Ravenna appositamente composta da Giuseppe Lillo, accompagnata dal ballo storico Il ratto delle venetedonzelle di Antonio Cortesi. Il brevissimo periodo di ricostruzione permise ai proprietari di limitare i passivi della mancata operatività, ma causò nell’impazienza di potersi nuovamente avvalere del teatro, problemi per il corretto funzionamento, perché sarebbe servito più tempo per un’adeguata sistemazione alle esigenze di spettacolo. I lavori sotto la gestione dei fratelli Meduna avevano apportato sostanziali modifiche all’architettura della sala e sempre con la collaborazione del Borsato, l’avevano resa più accogliente ed elegante adeguandola al gusto dell’epoca, con cambiamenti nella realizzazione delle parti pittoriche e nelle decorazioni a stucco, un nuovo affresco del soffitto, con interventi alla struttura per una miglior visibilità dai palchi e maggiore capienza, più agevole accessibilità alla sala: «Consta di 5 file con 167 loggie, oltre la reale che occupa lo spazio di 6. Non ha loggione. La platea è capace di 850 persone; l’intero teatro di circa 2000». Il teatro fu arricchito da addobbi, specchiere, quadrature, marmorini, la loggia imperiale realizzata con profusione di abbellimenti da Giuseppe Borsato, ridipinti i sipari. Sulla facciata è collocata la nuova insegna de La Fenice «risorta dall'incendio», disegnata da Giambattista Meduna: «Ne uscì un’opera sì magnifica, sì elegante e in ogni sua parte così perfetta che se prima era bella ora La Fenice è il bellissimo di tuti i teatri» (dalla Gazzetta privilegiata di Venezia del dicembre del 1837). Il 30 gennaio 1838 è in scena la terza opera commissionata a Gaetano Donizetti, il melodramma tragico Maria di Rudenz che sarà ricordato come uno dei più clamorosi fiaschi della carriera del compositore bergamasco. Ugole prestigiose si succedono sul palcoscenico, tra cui le primedonne Isabella Colbran, Giuditta Grisi, Giuditta Pasta ed il tenore Giovambattista Rubini. Tutti i teatri veneziani sono tenuti a rispettare un calendario ben cadenzato articolato su tre stagioni: quella di Carnevale dal 26 dicembre fino a febbraio-marzo, preceduta da quella Autunno, da ottobre a alla metà di dicembre e seguita dalla stagione di Primavera in aprile e maggio. L’appuntamento più importante è quello del 26 dicembre festività di Santo Stefano e prima sera di Carnevale, atteso da tutta la società veneziana, i cui componenti di tanto in tanto non si facevano scrupolo di avvalersi della prerogativa stroncatoria, per cui molte produzioni cadevano alla prima rappresentazione tra sghignazzi e compiacimento, per poi essere riconosciute nel merito nelle serate successive. La Fenice gode di tutti i benefici di una ”sala ufficiale” con un doppio sussidio, da parte dell’Amministrazione comunale e dalla “Luogotenenza” ovvero dal Governo imperiale, mantenendo la prerogativa di avvalersi del repertorio d’opera seria, escludendo il buffo nel periodo più redditizio della stagione di Carnevale. Favoritismi non condivisi dai gestori delle altre sale, Giovanni Gallo proprietario del San Benedetto e del San Giovanni Grisostomo nella primavera del 1835 si appellò al Dipartimento di polizia affermando che: «li teatri tutti di Venezia erano in origine uguali quanto il diritto», nell’auspicio che dal 1838 allo scadere decennale del beneficio «di veder rifiorire o l’uno o l’altro dei propri teatri all’antica prosperità». Giovanni Gallo, quanto mai agguerrito nel far valere i propri diritti e assicurare alle proprietà maggiori introiti chiederà, inoltre, di poter superare la “privata”, che impediva di organizzare lotterie o tombole nei suoi teatri, oltre a poter condividere il vantaggio economico di allestire veglioni mascherati a pagamento. Gli impresari tutti e non solo il Gallo, chiesero che gli venissero riconosciuti uguali diritti nella necessità di reperire fondi, le gestioni si erano fatte sempre più difficoltose e quella che era la funzione redditizia di allestire spettacoli d’opera, rischiava di degenerare in dissesto, per cui le tombole e il gioco d’azzardo erano considerate necessarie fonti di reddito. La posizione di vantaggio de La Fenice aveva messo in difficoltà la stessa autorità, che si vantava di voler assicurare: «anche ciò che possono esigere i bisogni e le abitudini della popolazione anche nella parte meno agiata». Il Gran Teatro sostenuto da un florido bilancio poté ospitare una produzione intensa e prestigiosa, dagli anni ’40 dell’Ottocento con protagonista Giuseppe Verdi che per La Fenice compose ben cinque opere. Successivamente al clamoroso esordio di Nabucco al Teatro alla Scala, il dramma lirico era stato replicato quello stesso anno a Venezia per ben venticinque sere, con tale partecipazione di pubblico che il presidente conte Mocenigo commissionò al trentenne compositore un'opera nuova tratta dall’Hernani di Victor Hugo, che tanto scandalo aveva suscitato in Francia. Per la stesura del testo venne presentato a Verdi il librettista e impresario Francesco Maria Piave, poeta ufficiale del teatro e dal 1842 direttore degli spettacoli. L’incontrò sarà tra i più produttivi, per la capacità di Piave ad adattarsi alle esigenze del Maestro ed anche, a Venezia, per eludere la severissima censura austriaca su temi considerati scabrosi, legati a quel desiderio di novità che confluiva da autori stranieri inneggianti alla ribellione romantica. Il 9 marzo 1844 Ernani trionfa a La Fenice, aprendo una stagione gloriosa per le opere verdiane, tra prime esecuzioni assolute e riprese, un percorso per il compositore non privo di intralci, delusioni e amarezze. La seconda opera veneziana nel marzo 1846 è Attila su libretto di Temistocle Solera, che non ottenne il successo desiderato, ma Verdi ne sembrò egualmente soddisfatto: «Ha avuto successo lietissimo alla prima sera, ed ha fatto fanatismo alla seconda rappresentazione». Le istanze indipendentiste si fanno sempre più pressanti e vedono nel teatro il luogo ideale per esprimere conflitto e opposizione. Le stagioni proseguono con regolarità sino al ’48, anno dell’insurrezione patriottica, con un cartellone che presenta tre titoli d’argomento shakespeariano: Otello di Rossini non gradito dal pubblico che avrebbe preferito un lieto fine, proibito dalla censura austriaca per paura dei disordini che potevano scatenarsi alla rievocazione della Serenissima; segue Macbeth di Verdi che il 6 febbraio durante la replica provoca il sollevamento dei presenti quando al suono del tamburo del quarto atto s’intona: “La patria tradita piangendo ne invita! Fratelli! La patria corriamo a salvar” stimolando nel pubblico unitosi al canto il manifesto dissenso alla dominazione austriaca, situazione degenerata quando la prima ballerina Fanny Cerrito si presenta in costume tricolore, mentre nei palchi le signore sventolano fazzoletti bianchi, rossi e verdi. Fu necessario l’intervento di un’intera compagnia dei croati per sgombrare il teatro e la polizia, per evitare simili episodi, emise l’ordinanza imponendo d’interrompere l’opera al terzo atto. A completamento della stagione il dramma Amleto su testo di Giovanni Peruzzini con musica appositamente commissionata ad Antonio Buzzola, musicista che dal 1831 era entrato a far parte dell'orchestra. Nel corso dell’insurrezione indipendentista il Governo provvisorio, formatosi alla cacciata degli austriaci, dispose che i palchi già destinati al governatore, al direttore di polizia e alla corte vicereale del precedente governo: «vengano messi a disposizione degli Asili Infantili, acciò, durante la stagione stessa, li utilizzi a loro vantaggio». Viene demolito il palco imperiale, simbolo del potere straniero al cui posto sono reintegrati i sei preesistenti palchetti. Il 24 agosto 1849 la città torna per la terza volta alla corona d’Austria ed Il comando incarica i fratelli Meduna di ricostruire la loggia centrale chiamando ancora una volta per la decorazione Giuseppe Borsato; i lavori di doratura, stuccatura, intagli vengono affidati agli artigiani che avevano lavorato con i Meduna. Commissionato a Giuseppe Verdi nel 1851 è Rigoletto, ancora da Victor Hugo, accolto con favore dal pubblico compensando il musicista e il librettista Francesco Maria Piave dai tanti impedimenti dovuti alla severità della censura. Le prove dell’opera, per volere dello stesso Verdi, si erano tenute in gran segreto, poiché il compositore non voleva che alcuni brani di particolare orecchiabilità potessero essere canticchiati per Venezia e in particolare dai gondolieri, facendo venire a mancare la sorpresa al debutto. Il successo fu tale che il motivo de “La donna è mobile” quella sera e i giorni seguenti era sulla bocca di tutti: «ed ella già cominciava ieri sera a canticchiarsi dalle genti che uscian dal teatro; tanto intimamente l’avevan sentita!»; se ne contarono quattordici recite e Giuseppe Verdi fu consacrato dalla stampa come un «genio». Nel 1852 la Direzione Centrale di Ordine Pubblico ragguaglia la Presidenza della Luogotenenza sui teatri a Venezia: «la Censura teatrale è in Venezia che per la Provincia esercitata con molto rigore perché si tolga dal teatro ciò che può offendere la politica, la religione e il buon costume. Tuttavolta, non è a tacere che sarebbe desiderabile che l’arte drammatica che in Italia tanto decaduta, venisse incoraggiata e protetta». In quello stesso anno si rende necessario un ulteriore intervento, per porre rimedio al rapido deterioramento causato del poco tempo con il quale il teatro era stato ricostruito nel 1837; si rinnovano le la decorazioni e si coglie l’occasione per apportare migliorie ai palchi di proscenio. Il problema maggiore si dovrà affrontare negli anni successivi, quando Il 7 gennaio 1853 all’ordine del giorno è il problema del deterioramento delle strutture del tetto e si decise di procedette alla pubblicazione di un apposito bando, al quale risposero con ben quindici progetti, di cui nessuno considerato soddisfacente. Di conseguenza il 10 aprile viene convocata nuovamente l'assemblea dei soci e i lavori ulteriormente affidati a Giovan Battista Meduna, con particolare raccomandazione di rinfrescare gli adornamenti esistenti: «alleggerendole in qualche parte per meglio armonizzare l'insieme». Nel frattempo, il 6 marzo del 1853, va in scena in prima assoluta la quarta opera scritta appositamente per la Fenice da Giuseppe Verdi: La Traviata, un clamoroso insuccesso si disse per la scabrosità dell’argomento, per l’inadeguatezza degli interpreti, ma più probabilmente il pubblico di quella sera sempre attento quanto ostile ad ogni cambiamento reagì con contrarietà e derisione a quella critica implicita che si concretizzava in palcoscenico. Scriverà Verdi: «La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo giudicherà». Nel 1854 erano stati avviati i lavori di restauro e modifiche architettoniche, di risistemazione del soffitto, della nuova decorazione della sala e rinnovo degli ornamenti del palco imperiale, evidenziando Il carattere marcatamente neobarocco/rococò che Meduna aveva accentuato dalla fase progettuale a quella della realizzazione, assecondando uno stile d’ispirazione francese improntato a canoni tardo-neoclassici, tornati prepotentemente di moda. Del 1854 è l’avviso della Direzione di Polizia delle Provincie Venete sul comportamento da tenersi nei teatri: «È proibita ogni incomoda riunione di persone nei corridoj, negli atrii, o sulle scale del Teatro. Nessuno potrà rimanere in piede nella fila di mezzo alla platea, e meno poi tra lo spazio che divide l’uno dall’altra fila delle sedie onde non sia tolta la visuale agli altri spettatori. Sono rigorosamente vietate le grida, i fischii ed ogni altro sconvenevole rumore. Gli Attori non potranno essere chiamati sul proscenio a ricevere più di tre volte consecutive. Non sono permesse le repliche di alcun pezzo sia dell’opera che del ballo». Il 26 dicembre 1854 il teatro è riaperto con l’opera Marco Visconti di Errico Petrella; le reazioni del pubblico sulla nuova veste sono ancora una volta contrastanti; la maggior parte apprezza il risultato delle dorature estese ai motivi a ricciolo e a volute in gran parte di cartapesta, ancor più settecentesco di quello originale, con punto d’attrazione nel palco imperale che secondo l’architetto avrebbe dovuto: «vincere nell’effetto il teatro». Sulla Gazzetta ufficiale di Venezia si legge: «La loggia imperiale è tutto quello, che di più signorile e sfarzoso uno possa ideare: lo sfoggio unito al più elegante nitore»; tra i dubbiosi il professore d’estetica Pietro Selvatico: «(…) non intendo scemar credito a parecchi ornamenti benissimo immaginati, intendo solo dire che tutte decorazioni non concordano colla vecchia ossatura classica che si voleva lasciare intatta». Nel marzo del 1857 è la volta della quinta ed ultima creazione verdiana per Venezia con Simon Boccanegra, che non piacque. Verdi sembrò non esserne particolarmente amareggiato, ma rifiuterà una sesta commissione: «Il carnevale di Venezia è stato bello, la stagione teatrale buona fin qui, ma ieri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi ha torto». Tra le presenze illustri a La Fenice Il 25 novembre 1856 vi è quella dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe accompagnato dalla consorte Elisabetta (Sisi), appassionato di lirica e assiduo frequentatore dei teatri veneziani: in occasione della loro prima visita presenziarono dal palco imperiale alla Gemma di Vergy di Donizetti, frequentarono con assiduità i teatri Apollo e San Samuele; il tutto è rigorosamente appuntato nel diario che Francesco Giuseppe teneva quotidianamente. Impresario e autorità concordano per una successiva serata di offrire ai sovrani, privilegiando il successo del momento con La traviata di Verdi, riproposta appositamente nell’occasione, grazie alla partecipazione dei regnanti con opportunità per la direzione di un significativo ritorno finanziario (inalzando il prezzo degli ingressi!) e di sicuro richiamo mondano. Le vicende prendono il sopravvento, con l'armistizio di Villafranca del luglio del 1859 si era conclusa la Seconda guerra d’indipendenza con aggravio sulle finanze degli stati coinvolti, la maggioranza dei soci è delusa dalle mancate aspettative e prostrata da problemi di carattere economico, tanto che in settembre decidono di chiudere: «in attesa di tempi migliori»; la serrata si protrarrà sino all'avvenuta annessione di Venezia e del Veneto al Regno d'Italia del 1866. In una serata straordinaria al Gran Teatro La Fenice nel novembre 1866 è presente Vittorio Emanuele II accompagnato da alcuni membri della famiglia reale, in loro onore è eseguita la cantata Venezia liberata al Re posta in musica da Antonio Buzzolla a cui segue un ballo. Sopra il palco imperiale, ora reale, viene collocato lo stemma sabaudo. Nello stesso spazio nel 1895, in occasione dello spettacolo di gala per l’avvio dell'Esposizione Internazionale d'Arte, s’incontreranno per la prima volta l’allora principe Vittorio Emanuele e la principessa Elena di Montenegro, futuri sposi. Le attività de La Fenice erano riprese con regolarità, dal 31 ottobre 1866 con la stagione d’autunno in scena Un ballo in maschera accompagnato dall’azione mimica Un’avventura di carnevale, quello stesso anno vengono avviati lavori di ammodernamento e conservazione, affidati a Lodovico Cadorin e terminati nel 1868; tra le modifiche più importanti la trasformazione in loggione del quart’ordine di palchi (quinta fila) per far accedere al teatro un pubblico di classi meno agiate. L’edificio appartiene alla Società dei palchettisti, che alla fine di dicembre 1867 conta centotrenta quattro soci. Nel 1968 La Fenice si apre al nuovo corso che apporterà più cambiamenti di quanti si sarebbe potuti prevedere, con in scena il Don Carlo nella versione ridotta in quattro atti e nell’occasione si poteva leggere su La Gazzetta di Venezia dell’11 aprile 1868: «(…) nell’occasione (…) di straordinaria affluenza di forestieri in Venezia»: cambia il pubblico, ma nonostante tutto il Gran Teatro La Fenice sembra continuare ad essere espressione di quel gruppo di cittadini ricchi e colti che avevano visto nel teatro il luogo simbolo della cultura, eppure qualcos’altro stava mutando, perché da storica città capitale Venezia era stata declassata a provincia. Negli anni seguenti il Governo italiano farà mancare l’appoggio finanziario; molti dei patrizi veneti, un poco alla volta, rinunceranno al possesso del palco e la situazione si farà più critica per l’insufficienza di contributi comunali, successivamente azzerati, obbligando la Fenice tra il 1872 e il 1897 a non svolgere ben dodici stagioni di Carnevale. Nel marzo del 1874 in scena la prima italiana di Rienzil’ultimo dei tribuni di Richard Wagner. Il compositore di Lipsia amava Venezia, anche se non ne condivideva i gusti musicali e nel corso di uno dei sui soggiorni era stato ispirato dal canto dei gondolieri nel comporre il secondo atto del Tristan und Isolde. Tornò a Venezia con la famiglia nel 1882 e la vigilia di Natale, per festeggiare il compleanno della moglie Cosima, diresse un concerto nelle Sale Apollinee de La Fenice. Morì per una crisi cardiaca a Ca' Vendramin Calergi il 13 febbraio 1883. Venne rinviata la tournée italiana organizzata dal Bayreuth Festspelhaus con la rappresentazione del Der Ring des Nibelungen con la Compagnia artistica del Teatro Riccardo Wagner sotto la direzione di Angelo Neumann; al Teatro La Fenice per la prima edizione italiana della Tetralogia si dovrà attendere il mese di aprile. Nel 1876 la Società proprietaria si scioglie e La Fenice assume la veste giuridica di Ente morale, passando da gestione privata a pubblica. Dal 1895 e sino a metà del Novecento sul podio de La Fenice sale Arturo Toscanini con titoli d’opera contemporanea quali il dramma lirico Cristoforo Colombo di Alberto Franchetti, Le Villi di Puccini, Falstaff di Verdi, Emma Liona di Antonio Lozzi e per svariate stagioni concertistiche. Dal 1921 Victor De Sabata direttore in stagioni concertistiche e nel 1951 per l’evento in occasione del cinquantesimo dalla scomparsa di Giuseppe Verdi. Dal 1953 Leonard Bernstein è nella sala teatrale de La Fenice e alle Apollinee, in particolare per appuntamenti del Festival Internazionale di Musica Contemporanea e nel 1982 alla Basilica dei Santi Giovanni e Paolo per In memoriam di Igor’ Stravinskij. Dal 1963 in veste di direttore e avvolte ideatore Claudio Abbado con concerti sinfonici e cameristici, eventi straordinari, manifestazioni in decentramento e nel 1973 anche in veste di revisore per la versione andata in scena dieci anni prima a La Scala de I Capuleti e Montecchi di Bellini con il personaggio di Romeo affidato al tenore, con Veriano Luchetti e Katia Ricciarelli, direttore Piero Bellugi, regia di Sandro Sequi. A cavallo tra i due secoli si susseguono presenze di prestigio e periodi di crisi; all’inizio del Novecento il teatro è costretto a rimanere inattivo per svariate stagioni. Con l’inizio de La grande guerra chiude, metterà a disposizione alcune sale per il Comitato di assistenza civile e dopo la disfatta di Caporetto destinandole a ricovero dei militari in ritirata. Nel primo dopoguerra sono ospitati spettacoli di vario genere, dall’operetta alla prosa, ma i problemi di fondo che ne stavano caratterizzando la crisi gestionale sono tutt’altro che risolti e dal 1927 al ’36 per ben sei stagioni di Carnevale il teatro è costretto a ridurre le offerte a poche rappresentazioni. Nel 1930 su iniziativa della Biennale d’Arte La Fenice ospiterà il Festival Internazionale di Musica Contemporanea e grazie a questo incontro tra istituzioni si dovranno commissioni per titoli fondamentali nella storia compositiva del Novecento. Nel 1936 la situazione è mutata e il teatro torna ad imporsi, largo spazio nel cartellone è dedicato alle riprese e prime rappresentazioni per Venezia, i programmi si appoggiano prevalentemente sui nomi di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi, che assicurano una nutrita presenza di pubblico, si succedono eventi di rinnovato prestigio a produzioni di minore interesse, pur sempre con prestigiosi cantanti e direttori tra i più apprezzati. Nel 1937 il Comune acquista i palchi ancora di proprietà di privati e nel 1938 il Gran Teatro La Fenice è riconosciuto Ente Autonomo, con primo sovrintendente Goffredo Petrassi. Divenuta proprietaria dello stabile l’Amministrazione comunale, deliberando di affidare i lavori all’ingegnere Eugenio Miozzi, allo scopo di restituirne l’aspetto neoclassico e adeguarlo alle mutate esigenze sceniche: sono restaurate le decorazioni della sala teatrale e delle Apollinee, l’atrio viene raddoppiato, riorganizzati gli accessi, migliorata la disponibilità di camerini e i servizi, rinnovato il palcoscenico dotato dei più recenti dispositivi, consolidate le strutture murarie. Il 21 aprile 1938 la serata inaugurale, ancora con il Don Carlo di Verdi, direttore Antonio Guarnieri. Nel secondo dopoguerra Venezia si avvale della posizione di centro turistico e La Fenice rinnova il prestigio di palcoscenico di fama internazionale. Con la proclamazione della Repubblica nel 1946 lo stemma sabaudo che sovrastava il palco reale è sostituito dal Leone di San Marco. Dalla stagione 1946/‘47 direttore artistico è Mario Labroca, che tornerà quale sovrintendente nel 1959. Grande è l'attenzione alla produzione contemporanea, con prime mondiali di rilevante significato: nel 1951 La carriera di un libertino di Igor Stravinskij, Il giro di vite di Benjamin Britten nel 1954, L'angelo di fuoco di Sergej Prokof'ev nel 1955, proseguendo con novità di Luigi Nono, Bruno Maderna, Gian Francesco Malipiero e di Luigi Nono con il Prometeo nel 1984 per la cui produzione si aprì un palcoscenico nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo con scenografia di Renzo Piano. Negli anni fine ’40 e decenni successivi saranno presenti a La Fenice tutti i grandi interpreti, tra questi la ventiquattrenne Maria Callas la quale, dopo il debutto all’Arena di Verona del 1947 troverà nei sette anni di collaborazione con il Gran Teatro La Fenice il trampolino di lancio grazie al direttore d’orchestra Tullio Serafin, che la scelse per alcuni dei più importanti debutti, nonostante le iniziali riserve dell’allora direttore artistico. Serafin portò il soprano a Roma per studiare e la prima scrittura da Venezia arriverà nel 1947 per Tristano e Isotta di Wagner, l’anno seguente interpreta la principessa in Turandot e nel gennaio 1949 Brunilde in LaValchiria (Walkyria). Quello stesso mese la svolta, interpellata per sostituire l’indisposta Margherita Carosio in Elvira de I Puritani di Bellini inizia a studiare poco dopo la recita di Valchiria e in pochi giorni è pronta al debutto, clamoroso il successo. Nel 1950 Norma con Elena Nicolai e Tancredi Pasero; in occasione del centenario della prima esecuzione nel 1953 è Violetta ne La traviata di Verdi e l’anno successivo protagonista in Medea di Luigi Cherubini. A Venezia Maria Callas conoscerà Giulietta Simionato debuttante a La Fenice nel ‘48 in Carmen al fianco di Mario Del Monaco, con la quale s’istaurerà un proficuo rapporto artistico. Sempre la Simionato in Carmen con Orchestra e Coro dell’Ente veneziano per la stagione turistica del 1958 al Teatro Verde sull’isola di San Giorgio Maggiore, con Renata Scotto quale Micaela. Nel 1960 e nel ‘66 i complessi del Teatro La Fenice sono ospitati nel cortile di Palazzo Ducale per una produzione di Otello con Mario Del Monaco e Tito Gobbi e sono questi solo pochi esempi di una vasta attività. Nel 1979/’80 la nomina a sovrintendente di Lamberto Trezzini e a direttore artistico di Italo Gomez, grazie al loro impegno, con molte ambizioni e buone realtà, il teatro sembrerà rivivere i suoi tempi migliori. Si avvieranno iniziative per Il Carnevale al Teatro La Fenice con brillanti edizioni d’opera austro-danubiana con Il pipistrello (Die Fledermaus) con Luigi Alva, Daniela Mazzucato, Max René Cosotti, Armando Ariostini, La vedova allegra (Die lustige Witwe) con Rajna Kabaivanska e Mikael Melbye e l’opéra bouffe per “Parigi a Venezia” con Orfeo all’inferno (Orphée aux Enfers); per un certo periodo verrà riproposta la funzione della maschera in costume settecentesco per accompagnare il pubblico ai palchi. Gli eventi sono molteplici, basti ricordare il mezzosoprano/contralto Marylin Horne con le sue interpretazioni rossiniane e fra tutte nel gennaio 1982 quella entravestì di Tancredi, con Lella Cuberli quale Amenaide e Nicola Zaccaria in Orbazzano. A seguire quella stessa stagione, preceduta da un lavoro di ricerca musicologica, la prima rappresentazione in epoca moderna della prima versione di Madama Butterfly del 1904 per la Scala, in alternanza con la più conosciuta quarta e definitiva stesura di Parigi del 1906, un’occasione unica di confronto del capolavoro pucciniano nella sua ricercata evoluzione compositiva. Non va dimenticato che La Fenice fu anche, in quegli anni, un importante punto di riferimento nella produzione di “riscoperte” di testi del passato, da Crispino e la comare dei fratelli Ricci nel 1983 e ‘86 a La Finta pazza di Francesco Sacrati nel 1987. Ancora insieme Horne e Cuberli nel 1985 per Orlando di Haendel. Opera inaugurale la stagione del bicentenario è Semiramide di Rossini il 7 novembre 1992 con Mariella Devia. La programmazione degli spettacoli è sospesa per consentire i restauri che avrebbero dovuto, tra l’altro, adeguare il teatro alle norme antincendio, ma il 29 gennaio 1996 durante i lavori di manutenzione Venezia rivivrà il dramma di centosessanta anni prima: La Fenice è nuovamente distrutta da un incendio divampato nel soffitto intorno alle 20.40 con origine dal ridotto del loggione. Responsabili del disastro sono due elettricisti della ditta a cui era stato affidato il compito che, allo scopo di evitare una penale per il ritardo di fine lavori, appiccarono l'incendio lasciando volutamente accesa una fiamma ossidrica, pensando d’innescare un fuoco appena sufficiente per giustificare la causa di forza maggiore, evitando la sanzione. Con le prime luci del giorno ci si rese conto che per la seconda volta nella storia dell’edificio si erano salvate soltanto le pareti; i colpevoli vennero individuati e condannati, ma il disastro era ormai compiuto. L’emozione fu unanime e si decise prontamente che l'edificio dovesse essere ricostruito rifacendosi al progetto originale dei Meduna con alcuni accorgimenti risalenti al Selva «almeno per quanto possibile», pur servendosi di tecnologie e materiali avanzati. Il 6 febbraio 1996 sono stanziate con decreto-legge le prime risorse necessarie all’immediato avvio ai lavori, viene istituita la figura del Commissario Delegato per la ricostruzione e pubblicato il bando. Tra inerzia amministrativa, lotte di potere e impedimenti vari, la procedura sarà rallentata da ben quattordici cause civili e penali e dovranno passare quasi otto anni prima che fra quelle macerie si potesse tornare a fare musica; prima le indagini sull’incendio doloso, il concorso vinto da A.T.I. Impregilo con progetto assegnato all’architetto Gae Aulenti, rigettato a causa di un ricorso presentato da altre ditte per vizi di forma; la morte dell'architetto Aldo Rossi il cui piano di lavoro era stato selezionato, determinarono ulteriori ritardi, nonostante le generose donazioni provenienti da tutto il mondo. I lavori procedono con estrema lentezza, viene stipulato il contratto e il 15 giugno 1999 iniziano i lavori il cui termine è fissato per ottobre del 2001, protratto al febbraio 2002. Cinque cantieri con oltre quattrocento persone vengono aperti nel marzo 2002, nel frattempo, gli spettacoli sono ospitati al Teatro Malibran e al PalaFenice sull'isola del Tronchetto, quest’ultimo inaugurato con Don Giovanni di Mozart, struttura che sarà venduta all'Opéra de Liège. Preso atto degli impedimenti il Commissario per la ricostruzione indice un nuovo bando, vinto da un consorzio di quattro imprese. I lavori richiedono il massimo impegno, la ricostruzione della sala teatrale è preceduta da un attento lavoro di ricerca filologica, sono mantenuti i cinque ordini di palchi, riprodotto il medesimo apparato decorativo in cartapesta e legno rifacendosi con la massima fedeltà all’iconografia della decorazione della sala risalente al 1853/’54, di cui è conservata ampia documentazione nelle stampe dell'epoca e da alcuni disegni autografi di Giambattista Meduna con annotazioni manoscritte. Grande importanza assume l’apporto degli artigiani locali per lavori di doratura, stuccatura, intagli, un’arte che nell’esigenza di rinnovare costantemente le parti in legno dell’edificio si è trasmessa per generazioni, assicurando una continua manutenzione. Viene ripristinato l’originario accesso dalla cosiddetta «entrata d'acqua» previsto dal progetto del Selva; si esamina per l’ottenimento di un’acustica adeguata, tutto è sottoposto a un attento lavoro di ricostruzione e restauro, tra cui le Sale Apollinee, scampate all’incendio del 1836, gravemente danneggiate, per le quali viene effettuato un intervento conservativo delle parti residue e una parziale ricostruzione filologica di quelle perdute. Alcune zone del foyer sono troppo danneggiate per essere riportate alle condizioni originali e solo frammenti degli antichi affreschi sono ancora visibili. Il sipario rappresentava una delle tipicità de La Fenice, la cui memoria risale all’originale in velluto di Giovambattista Meduna del 1852, come documentano stampe d’epoca e un disegno originale, oltre a un’antica versione del velario conservata al Museo di Palazzo Mocenigo, presa a riferimento per riprodurre i ricami originali. I tecnici visionano i filmati d’epoca, le immagini iniziali del film Senso di Visconti girato all’interno della sala e il materiale fotografico, documentazione che si riferisce alla sala come apparve dopo i lavori del 1938 che arrecarono alcune modifiche. Per ovviare a questa eccezione, undici anni dopo la riapertura nel giugno 2024, il sovrintendente e direttore artistico della Fondazione Fortunato Ortombina lancierà un appello a chiunque possieda «foto e testimonianze» precedenti al ripristino, per un’ulteriore approfondimento filologico, richiamo che ha prodotto risultati quali una fotografia che testimonia come gli ingressi alla platea fossero ai lati del palco reale e non sotto. Nel programma di rifacimento viene riprodotto il lampadario centrale, ricopiate le poltrone grazie all’unica superstite che la notte dell’incendio si trovava da un restauratore e tanti altri preziosi accorgimenti. Il 14 dicembre 2003 il Gran Teatro La Fenice riapre con un concerto diretto da Riccardo Muti con l'Orchestra e il Coro del Gran Teatro La Fenice; il programma è improntato alla tradizione della civiltà musicale veneziana: con Igor’ Stravinskij che aveva dedicato a Venezia alcune sue grandi composizioni e per sua volontà sepolto nell'isola di San Michele, Antonio Caldara musicista veneziano e protagonista della vita artistica della città lagunare fra Sei e Settecento, infine Richard Wagner legatissimo a Venezia per avervi soggiornato varie volte e nella città lagunare composto il secondo atto di Tristan und Isolde e parte di Parsifal. I lavori strutturali, però, non erano ancora terminati e solo nel novembre 2004 verrà presentata in forma scenica la nuova produzione de La traviata. Incaricato per la ricostruzione della sala teatrale è lo scenografo Mauro Carosi «Ho lavorato inizialmente su uno scheletro geometrico, sulla struttura architettonica del teatro all’interno della quale si è dovuto ricollocare tutto il materiale pittorico in modo da rispettare al massimo la Fenice com’era prima dell’incendio»; si è detto riferendosi all’impatto di fine lavori: «C’è tutto, manca la patina del tempo», si vocifera che le tinte siano troppo vivaci, più che per una conformazione teatrale consone a una messa-in-scena. Nella tradizione del teatro le polemiche, piccole o grandi che siano, fanno parte della consuetudine e anche in questo aspetto: “La Fenice è risorta”!